Recensione Dear Esther

Tra fantasmi e solitudine, The Chinese Room ci ha stregati.

Versione testata PlayStation 4 e Xbox One.

Non è semplice recensire un gioco come Dear Esther. Non è facile parlarne, figurarsi riuscire a mettergli un voto (ammesso che dei voti, per esperienze come questa, ci sia bisogno). Che diavolo, la metà del web è persino indecisa se debba essere considerato un videogioco o meno. Abbiamo deciso di fare di testa nostra, le considerazioni di chi vuole la produzione di The Chinese Room un semplice “walking simulator” (cioè un gioco in cui cammini e basta) non ci hanno convinto. Dear Esther è un videogioco. Ma è completamente diverso da quello a cui siamo abituati, ed è estremamente difficile sia da comprendere che da accettare. Per questo ci ha decisamente convinti, e lo abbiamo apprezzato. I detrattori se ne faranno una ragione.

Prima di raccontarvi qualcosa sul titolo riteniamo necessario spiegarvi un po’ da dove salta fuori. Nato come mod di Half Life 2 e supportato dall’università di Portsmouth (Inghilterra), il progetto Dear Esther deve la vita a Dan Pinchbeck e alla software house The Chinese Room. Questa mod ha visto la luce nel 2008 (ne è passato di tempo) e ha riscosso buoni consensi per l’approccio audiovisivo sperimentale, per l’ambientazione eterea e per l’utilizzo della colonna sonora e di certi elementi scenografici. Non era esente da vari problemi, che sono stati tutti risolti nella versione cui abbiamo messo mano, ovvero la Landmark Edition del gioco con tanto di commento degli sviluppatori. Grazie al lavoro di Robert Briscoe, ex dipendente presso DICE il progetto è stato infatti completamente rivisto, lasciando intatta la sceneggiatura e l’ambientazione ma riprogettando interamente l’impianto grafico e tecnologico. 

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Esther, dove sei?

Una bella domanda, peccato non potervi rispondere, neanche se lo volessimo. L’intera produzione di Dear Esther racconta la storia di un uomo che sta cercando una donna. Questo è tutto quello che è dato sapere e che potremo sapere nel corso dell’intera esperienza in prima persona, dalla durata di circa un’ora e mezza. Oh almeno, è quello che potremo sapere con certezza, dato che il protagonista non è messo affatto bene sia dal punto di vista della salute fisica che di quella mentale.

Quest’uomo si ritrova su un’isola tipicamente nordica. Si intuisce (dalle sue parole, confermate da ciò che vedremo) che vi si trova da diverso tempo, sufficiente perchè abbia imparato a conoscerla bene e tuttavia sia ancora in grado di stupirsi per gli oggetti e la natura (quasi) incontaminata che lo circondano. Ogni luogo, ogni elemento richiamano a lui dei ricordi della sua vita, ricordi che sono tutti collegati nella figura di Esther, la sua moglie scomparsa. Si tratta di una narrazione in prima persona, tutta volta non alla ricerca di Eshter (sebbene sia questa la prima impressione) ma di qualcosa d’altro che l’uomo non riesce ad afferrare, e che noi abbiamo immaginato essere il senso stesso della sua esistenza.

Non vi diremo cosa l’uomo troverà alla fine del suo viaggio, perchè saremmo cattivi: vi diciamo soltanto di godervi il viaggio in se stesso. Perchè soltanto così capirete che la chiave di tutta la produzione è suscitare determinati stati emotivi nel giocatore più che nel proporre interazioni con l’ambiente circostante. E inizierete anche a capire che non potete fidarvi di tutto quello che dirà il protagonista: la sua memoria e la sua coscienza iniziano a cedere, suggerendo percorsi interpretativi molto profondi.

Cammina cammina, scese la notte.

Vi abbiamo raccontato di cosa parla Dear Esther. Beh, più o meno, almeno di quello che ci è parso di capire di Dear Esther, dal momento che il titolo può essere (e deve essere) giocato almeno tre volte per essere appreso appieno. Cambieranno anche le parole del protagonista e i suoi ragionamenti nelle tre diverse sessioni. Per il resto, se vi state chiedendo cosa dovrete fare… dovrete soprattutto saper ascoltare (e in un buon inglese, purtroppo: non sono presenti sottotitoli nella nostra lingua).

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L’intera produzione assume la forma di un racconto breve: la storia di un uomo perduto su un’isola alla ricerca della donna amata, che si presume essere morta. Che poi ciò sia vero, è incerto: il nostro uomo è soggetto a sbalzi di umore e vere e proprie frenesie mentali che rendono dubbia l’attendibilità delle sue affermazioni. Il giocatore dovrà muoversi nell’ambiente circostante seguendo dei binari ben precisi predisposti dal team di sviluppo, invisibili e tuttavia presenti. Non avrete mai la sensazione di dover andare per forza da quella parte, e tuttavia saprete esattamente di dover andare proprio da quella parte, grazie a una sapiente disposizione di sentieri, piante, sassi e mareggiate.

Lungo il cammino la giornata trascorrerà dall’alba alla notte (e qui è impossibile non pensare a una metafora dell’avventura come al ciclo della vita umana) e di tanto in tanto l’uomo esternerà il proprio flusso di coscienza parlandoci di questo o quell’amico, delle sue azioni passate, di ciò che pensa del proprio futuro, di passi biblici e soprattutto di Esther. Ed è Esther che l’uomo sta cercando, Esther sembra legata a quest’isola. Ma chi è davvero la donna? E dov’è? Si tratta di una persona in carne ed ossa o soprattutto di un’astrazione? E se è una persona, è ancora viva? Completate la narrazione e forse lo saprete.

Il titolo di The Chinese Room non prevede alcuna interazione con l’ambiente circostante. Durante le fasi scandite dal ciclo solare vedrete tutto nitidamente, di notte o nelle grotte o al chiuso subentrerà automaticamente il supporto di una torcia elettrica. Non potrete saltare, nè voltarvi di scatto nè interagire con l’ambiente circostante. Potrete solo ascoltare e guardare, e camminare. Se come noi soffrite di una miopia accentuata, il gioco vi fornisce uno zoom limitato sul campo visivo, che neanche è indispensabile. Non potrete neanche correre, e se all’inizio sembrerà un supplizio, più avanti capirete che è una scelta funzionale alla fruizione del racconto. 

Come rendere l’arte attraverso il videogioco

Si parla spesso di videogiochi come veri e propri “capolavori”. The Witcher 3, ad esempio, sarebbe uno dei più grandi capolavori degli ultimi anni, perchè è grosso, bello, con una trama intrigante, e si picchiano i mostri. Forse è vero; ma ci si dimentica troppo spesso che l’arte si cela allo sguardo superficiale e si nasconde nelle piccole cose. Sembra una banalità, ma la fotografia scattata dal fotografo più abile del mondo potrebbe non reggere il confronto con quella scattata da mia mamma con il cellulare al sole che sorge in giardino. La vita se ne ride delle nostre classificazioni.

Dear Esther, quindi, è un videogioco. Vi diremo di più: è anche arte, a modo suo. Non finirà in un museo, tra dieci anni se lo saranno dimenticati tutti, e probabilmente con queste affermazioni attireremo l’odio di mezzo mondo. Ce ne faremo una ragione. Nel frattempo proviamo a spiegarvi perchè, secondo noi, è arte. Primo: scuote le coscienze. Fa riflettere. Fa ragionare sulla vita, sulla morte, sull’esistenza del singolo, sul suo rapporto con l’ambiente, alla natura, a Dio. L’arte fa questo. Secondo: è fruibile in qualsiasi luogo, in qualsiasi tempo. Tra cento anni se qualcuno giocherà a Dear Esther, noterà che tutto ciò è ancora valido. Funzionerà ancora. L’arte fa questo. La Divina Commedia non è invecchiata dopo 800 anni, e non invecchierà mai. Ci sarebbe anche altro, ma crediamo di avervi annoiati già abbastanza con questo polpettone.

Ah, sì, le questioni importanti: la grafica del gioco è bellissima, è in HD, non ci sono bug e la colonna sonora è da applausi a scena aperta, così come le ambientazioni, gli scenari, i dialoghi e quella foto di mia mamma al giardino di cui vi parlavo.

Commento finale

Dear Esther è un piccolo capolavoro che somiglia più a un racconto che a un videogioco vero e proprio, eppure riesce ad essere entrambe le cose allo stesso tempo e lo fa con una potenza tale da spingersi a diventare un piccolo prodotto artistico, adatto a tutti e consigliato a tutti quelli che sono ancora in grado di emozionarsi ascoltando storie raccontate da altri e riflettendo sul senso della vita e dell’esistenza. Certo, bisogna conoscere la lingua inglese, e questo per un non madrelingua è un peccato. E dal punto di vista del “gioco” vero e proprio non si possono fare tutte quelle cose che si fanno negli altri giochi. Ma non fa niente. Davvero, non fa niente.

Pro Contro 
– Storia profonda e toccante, per emozioni intense
– Esistenzialismo
– Leggero e preciso come un racconto
– Poca libertà di azione
– Poca interazione con l’ambiente
 
  Voto Globale:  90
 
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