Sconvolgenti notizie giungono dal Galles dopo che ben sette giovani si sono suicidati dopo essersi accordati in rete
Suicidio di massa
La giornata appena trascorsa è stata particolarmente impegnativa dal punto di vista dell’informazione politica a livello nazionale ed è forse per questo motivo che la sconvolgente notizia dei sette giovani gallesi morti suicidi non ha avuto lo spazio che meritava.
Invero letta in questo modo la notizia è già di per sè incredibile, ma se a questi elementi si aggiungono i dettagli della vicenda si rischia di rimanere inebetiti: i sette giovani gallesi vivevano tutti nella stessa città, Bridgend, nel Galles appunto e frequentavano tutti lo stesso Social Network dove si sarebbero incontrati e avrebbero paventato il suicidio di massa per poi metterlo in atto.
L’angolo di rete che ha fatto da macabra cornice al folle accordo dei giovani è Bebo, social network pienamente ispirato alla filosofia web 2.0 dove è possibile scambiarsi opinioni, guardare foto e video ed interessarsi alla vita altrui. Il patto tra i ragazzi, se di accordo si può parlare secondo quanto hanno affermato gli inquirenti, prevedeva il suicidio dei sette, che non tutti assieme, ma uno dopo l’altro, anche a distanza di mesi, si sarebbero tolti la vita, mentre durante tutto questo tempo (il primo suicidio risale a diversi mesi fa) i ragazzi ancora in vita lasciavano sempre su Bebo epitaffi in memoria dei loro compagni.
A questo punto è inutile fare i nomi delle vittime, tanto meno specificare che avevano tra i diciasette anni e i venti sette anni e che nel gruppo erano presenti anche delle ragazze, molto più logico mettere l’accento sulle cause di un simile gesto e sull’interrogativo della responsabilità del web nell’accaduto.
Certo il Galles, secondo quanto si apprende dalle agenzie di stampa, avrebbe un tasso di suicidi particolarmente alto rispetto alle altre aree del Regno Unito, ma questo non spiega la preordinazione così meticolosa quanto superficiale del gesto compiuto dai giovani; d’altra parte con una certa facilità, un pò come si fa con i videogames violenti, sociologi e psicologi, ma anche personalità politiche, hanno puntato il dito contro la rete e le chat room definendole luogo di alienazione e di emulazione per i giovani.
In primis è doveroso sottolineare che una vita condotta sempre di più a contatto con lo schermo e il ticchettio dei tasti quali unici interlocutori degli adolescenti o dei giovani, per altro coetanei di chi scrive, tendono a conferire, in aggiunta alla mancanza di stimoli esterni forti ed interessanti (anche dal punto di vista politico, relazionale, della formazione e del lavoro) un senso di disaffezione alla società, ai problemi concreti e alle dinamiche interpersonali, inducendoci talvolta, anche quando sembriamo instaurare un rapporto con una persona che si trova al di là dell’altra macchina, a preferire che il rapporto rimanga “in rete”, protetto da uno schermo in grado di frapporsi in modo spersonalizzante tra noi stessi e il prossimo. Detto ciò, di fronte al valore massimo della vita, sembra assolutamente fuori luogo addossare la colpa di gesti così estremi ad un social network o alla rete in genere, magari la dinamica d’azione dei ragazzi fa riflettere sulla facilità della costruzione dei rapporti e dell’emulazione in rete anche in merito alla velocità con cui essi nascono e si amplificano, ma l’intento del suicidio, di quella espressione della disaffezione alla vita che si sarebbe manifestata con gli anni, oppure chissà, mai nella vita di quei giovani se non a contatto con il gruppo, resta a nostro giudizio componente fondamentale di un disagio che dal quotidiano arriva alla rete e non viceversa.