Recensione Il grande Gatsby

ilgrandegatsbyI Roaring Twenties secondo Luhrman.

The Great Gatsby – è un film diretto da Baz Luhrmann e interpretato da Leonardo Di Caprio, Carey Mulligan e Tobey Maguire.

Trattandosi della riproduzione cinematografica del celebre romanzo di F. Scott Fitzgerald, la prima questione che bisogna affrontare nel recensirlo è proprio la fedeltà all’opera, e in questo, bisogna proprio dirlo, il film è perfetto. Riproduzione fedele, attenta a ogni minimo particolare (sono rimasta sconcertata di ritrovarci persino cose come la penna d’oro data da Daisy al marito durante una delle grandi feste di Gatsby per appuntare qualche numero). Sicuramente è dovuta a questo la durata cospicua del film, anche se nell’ultima parte qualche concessione alle dinamiche psicologico commerciali fa operare dei tagli: del tutto assente la parte del padre di Gatsby che viene dal Minnesota per il funerale del figlio e ciondola triste tra le cose di Gatsby, nella sua villa, orgoglioso della grandezza raggiunta.

La cosa più affascinante di questa trasposizione è, a mio avviso, il fatto che il regista abbia riportato frase per frase l’intero romanzo, cogliendo ed esaltando, attraverso una cornice fotografica incantata e incantevole, quelle che sono le parti che conferiscono senso al tutto.

4newsilgrandegatsby1A tal proposito, risulta decisivo l’insistere sulla luce verde poiché, tramite questa, è possibile comprendere la portata poetica di tutta l’opera. La luce verde, il faro della casa di Daisy, rappresentava per Gatsby l’ideale a cui protendeva (splendida la scena di Leo che allunga le mani per tenerla nel pugno), il raggiungimento della donna amata e tanto desiderata. Quella luce, una volta conquistata, abbandona l’immaginario, il campo della speranza e fantasia, per incorrere in quello della realtà: “adesso era di nuovo una luce verde sul pontile. Il suo totale di oggetti incantati era diminuito di uno.” Una delle frasi più belle del libro, forse, insieme alla frase finale: “Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato”, altrettanto importante e sottolineata perfettamente da quella scrittura su immagini, strategia usata dal regista per conquistare l’attenzione dello spettatore, trasformandolo in lettore, e quindi ricordandogli di pesare ogni parola, perché è in questo la magia della letteratura.

Ed è proprio il tempo, e in particolare il passato, un altro dei grandi protagonisti. Nick Carraway, l’uomo che scriverà la storia, l’unico che rimarrà al fianco di Gatsby dopo la morte, il solo a volergli davvero bene, a un certo punto dirà a Gatsby che non si può tornare indietro, che non si può vivere il passato, ma Gatsby risponderà che, invece, si può. Forse si può perché si deve, perché quel “great” aggiunto da Nick al titolo della storia, quel “grande” scritto a penna sopra il semplice Gatsby (il nome inizialmente scelto per il romanzo) è l’indice dell’attestato di stima di Nick al suo amico, stima dovuta a sua volta a un temperamento che fa di Gatsby l’uomo più speranzoso che egli abbia mai conosciuto e quindi il solo a non essere marcio. Tutti gli altri, rappresentanti di una ricchezza avuta per nascita, non sanno cosa vuol dire la speranza, non vivono nella propensione e nella conquista, non scelgono un valore, una luce verde per la quale spendere tutte le proprie forze, alla quale indirizzare tutte le proprie azioni e pensieri. Tutti gli altri sono marci, gli dirà Nick, mentre Gatsby no, lui non lo è, anche se per raggiungere il desiderato si è macchiato di diversi “peccatucci” (alla fine è un malavitoso, un contrabbandiere), non è lui ad essere marcio; lui è il solo che conosce cosa voglia dire devozione, cosa voglia dire scegliere qualcosa e rendere quella cosa la propria scelta assoluta. Ecco perché una delle scene in assoluto più belle del film è quella del primo bacio di Daisy e Gatsby, perché lui si ferma prima di baciarla, si ferma e dice a se stesso che dopo quel bacio smetterà di essere Dio, smetterà di poter scegliere tutto, la sua libertà si attuerà nell’amare lei, nel sentirsi sposato a lei per il resto della sua vita. Ed è per questo che tutto il tempo vissuto senza lei non ha importanza, tutto quanto ha fatto è stato solo per arrivare infine a lei, tutte le feste, tutto quel cercare fama, gloria, soldi, tutto esclusivamente orientato a Daisy, il fulcro di tutta la sua esistenza, il presente che rende futuro e passato il resto del tempo, l’attimo incarnato della bellezza.

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Divina la selezione musicale, quei brani che spaziano dalla retrospettiva sugli anni ’20 al moderno a noi contemporaneo, mixato e riadattato brillantemente nelle scene formidabili delle feste. Sublime e incredibile l’aderenza di “Young and beautiful” alle immagini, la voce di Lana del rey, sensuale ed evocativa, genera una tensione continua verso la nota futura riuscendo però contemporaneamente a insistere su ogni tonalità, creando quell’atmosfera magica di vuoti d’aria e recuperi di fiato che accelerano i battiti orchestrando nostalgia e tenerezza nella sensazione che dà il rimpianto di qualcosa che non è stato ancora.

Caleidoscopica la rappresentazione delle feste, nella riflessione e rifrazione in innumerevoli cristalli di colori differenti che esplodono improvvisi sulla scena in un travolgente turbinio di emozioni contrastanti.

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Scenografia degna delle più grandi opere pittoriche, ti ritrovi improvvisamente a notare la somiglianza tra l’ appartamento della signorina Myrtle e l’opera di un certo Chagall: rosso, eccentrico, quasi indiano, pieno di colori fino a scoppiare. Fotografia da premio, grazie alla minuziosa attenzione che rende ogni fotogramma un piccolo angolo di paradiso, trovato all’improvviso dentro un cinema, perso e recuperato l’istante successivo nel mutarsi d’abito della bellezza, una bellezza che sfrutta ogni suo aspetto: dalla natura ostinata e disordinata di un giardino non curato, a quella di un’architettura da giardino che si fa poesia; dal cielo stellato improvviso e inquadrato nello sfarzo di una villa gigante in netto contrasto con la solitudine del protagonista; dalla misera periferia incipriata di fango a coprire l’inesistenza del mondo all’ammucchiarsi furbesco di ricchezza, peccato e utile nella grande città.

Non sto qui a dirvi poi delle sempre superbe interpretazioni di due attori che, secondo il mio modesto parere, sono a buon diritto tra i migliori (non che assolutamente perfetti per le rispettive parti), Leonardo Di Caprio e Carey Mulligan stupiscono in un binomio pazzesco: lei, nell’apparenza scoppiettante ed emotiva, che si riserva una natura di prima della classe, abituata alla grandezza, incapace di affrontare i problemi, terrorizzata da tutto quanto spodesti l’equilibrio; lui, nell’apparenza pacato ed elegante, affabile e impercettibile, che può essere tutto e niente, nasconde la sua semplicità di bambino mai cresciuto, sotterrato da una mole infinita di camicie dal tessuto perfetto, gettate nello scherzo addosso a Daisy in una delle scene più belle del film. Tutto quello che ha costruito non è lui, tutto quello che ha accumulato lo ha fatto soltanto pensando a cosa sarebbe piaciuto a lei. 
Lui quindi dov’è? È negli occhi dell’amata, nella sua felicità, come tutte le persone che amano veramente. 
Per questo motivo la fine non poteva proprio essere diversa.

Voto Globale 75

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