In occasione della splendida iniziativa “Il cinema ritrovato” promossa dal Modernissimo di Napoli (sito in via cisterna dell’olio) che prevede la visione restaurata di nove classici del cinema, ho deciso di proporvi il mio contributo critico a una delle opere cinematografiche italiane più apprezzate: Il Gattopardo.
Vi invito a visitare la pagina web inerente all’iniziativa a questo indirizzo
Il Gattopardo è un film del 1963 diretto da Luchino Visconti, riproduzione cinefila (pensata dal produttore Goffredo Lombardo) dell’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. La pellicola ha vinto la Palma d’oro come miglior film al 16º Festival di Cannes.
La trama, com’è noto a molti, trova la sua precisa collocazione storica nel 1860, ed è infatti dell’unità d’Italia, dei garibaldini, e del passaggio di testimone sociale che si tratta prevalentemente in questo film in cui la grande protagonista è l’aristocrazia.
È certamente scontato sottolineare che si tratta di un’aristocrazia presa nel suo periodo di transizione e che, nonostante lo sfarzo di cui può ancora fare uso e il rispetto reverenziale che incute nel popolo attraverso un eco di secoli, è pur sempre una classe sociale su cui si punta la lente d’ingrandimento nel momento in cui deve fare i conti con il trasformismo, il cambiamento dettato dalla rivoluzione. Portavoce elegante della classe nobile è il protagonista Don Fabrizio di Salina (Burt Lancaster), il quale dimostra la sua particolare acutezza di spirito nel confronto con la gioventù, con il mondo che avanza, e in particolare con il nipote (amatissimo) Tancredi (Alain Delon) al quale è affidata la celebre battuta: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” che verrà poi ripetuta dallo stesso Don Fabrizio mostrando proprio il suo aver assorbito la mentalità del ragazzo. Addirittura Don Fabrizio si infurierà alla notizia che la figlia Concetta sia innamorata di Tancredi, poiché è consapevole che la ragazza, sangue del suo sangue, non potrà offrire al nipote una generosa dote, dovendola dividere con altri sei fratelli.
Alla timida Concetta che, poverina, nemmeno caratterialmente riuscirebbe ad aiutare e supportare la scalata sociale del ragazzo il quale si dimostra capace e arrembante, viene preferita Angelica Sedara (interpretata da Claudia Cardinale), figlia di Don Calogeno Sedara, uomo del momento: scaltro arrampicatore sociale, imprenditore e politico, capace di accumulare un vero patrimonio. Quest’uomo, dipinto brillantemente dal regista, è il rappresentante viscontiano del nuovo millennio: è un uomo di bassa statura, fisica e morale, poco elegante (basti pensare al momento della festa in cui si addormenta con i piedi sul tavolo), a stento alfabetizzato, un uomo che appare come una macchietta da teatro, quasi fa ridere mentre tutto il mondo gli si accumula nelle mani.
Il film fu soggetto a molte critiche poiché, secondo diversi esponenti politici di sinistra, infangava l’unità d’Italia, mostrandone l’intimo immobilismo mascherato da un semplice cambio di classe dirigenziale: dall’aristocrazia alla borghesia: “Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”. Non solo questo ovviamente: molti punti deboli dell’unità e della rivoluzione sono sparsi nel film in maniera sapiente e in alcuni punti geniale, ad esempio quando si sottolinea il brigantaggio e il solco instauratosi tra coloro che infine scelsero di entrare nelle forze militari dei Savoia, sotto Vittorio Emanuele II, e molti altri che restarono garibaldini e in qualche modo anarchici.
A mio avviso, splendido il dialogo tra Don Fabrizio e Don Ciccio in cui quest’ultimo si riferisce ai Savoia apostrofandoli come Savoiardi che lui, ironizza, è solito inzuppare nel caffè. Altro dialogo centrale e fondamentale è quello tra Don Fabrizio e un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, il quale offre a Don Fabrizio la nomina a senatore del nuovo Regno d’Italia. Il nobile rifiuterà. Le motivazioni di questo rifiuto rappresentano il punto più alto del film: Don Fabrizio tenterà di spiegare al funzionario quanto per lui sia effimero il cambiamento e come non senta dentro sé le forze per opporsi e resistere. Il siciliano, dice, è costantemente mosso da questo desiderio di nulla, di una quiete e pace che finiscono per identificarsi con uno stare fermi mentre tutto illusoriamente avanza. La risposta del piemontese è di quelle ottimistiche e speranzose: egli intima il nobiluomo di fare qualcosa poiché se i migliori di ritirano per estrema lucidità di pensiero, resterà tutto nelle mani dei peggiori, e allora davvero non ci sarà più scampo.
In questo film, quindi, non solo si può ricavare un vero e proprio dipinto dell’Italia del periodo (e direi dell’Italia in generale), grazie a una trattazione che, anche quando sembra poggiarsi su generalizzazioni, non scade mai nella banalità ma rovescia i punti di vista in disincantato scorcio psicologico, storico-sociale; ma è inoltre possibile rintracciare quella corrente di pensiero nichilistica che ha avuto il suo sbocciare novecentesco nelle rivoluzioni, cioè proprio laddove non si credeva di poterla mai ritrovare. Il risultato è un’opera che, quanto a trama, è un tesoriere di storia e filosofia.
Visconti poi ci mette anche dell’artistico permettendo alla pellicola di toccare la sublimità per quanto riguarda le prospettive registiche e la modulazione temporale. Il film non annoia e fa rimanere incollati per tutte le tre ore persino nella sequenza lunghissima della festa che accorda perfettamente l’animo ad assaporare il lento declino dell’aristocrazia attraverso il graduale stancarsi dei festeggiati, il passaggio dall’ordine, dalla bellezza e ricchezza dell’inizio (tutti gli invitati allegri, composti, quasi tutti danzanti) alla vuotezza, sporcizia, e ai rimasugli di tavole prima imbandite alla perfezione (pochi restano a ballare e molti addirittura dormono).
A tal proposito, degna di nota la carrellata dei nobili in chiesa i cui volti sono imbiancati dalla polvere e dalla cenere incensoria, proprio a sottolineare la mummificazione della classe sociale. Splendido l’avanzare lento e classicheggiante lungo il viale della villa che viene associato ai titoli d’entrata. Assolutamente stupenda la scena iniziale in cui il ritmo cantilenante della preghiera nobiliare viene frammisto e sovrapposto al vociare chiassoso del popolo scosso dalle vicende rivoluzionarie; a dir poco spettacolare, in questo contesto, quella tenda ricamata che libra nella camera conferendo mestizia e lentezza persino alla spazialità.
A far da protagonista indiscussa del film è poi la meravigliosa colonna sonora di Nino Rota che riesce a rendere perfettamente il miscuglio di fiaba e disincanto della regalità in declino.
Insomma, non stupisce affatto che questo sia diventato uno dei più grandi classici del cinema italiano.