David Cage: a Torino una Stella per il padre di Kara

Siamo andati all’inaugurazione della nuova ala del Museo del Cinema di Torino, il primo museo del cinema italiano a prevedere una sezione dedicata esclusivamente ai videogiochi. Padrino dell’evento David Cage, fondatore di Quantic Dream e “padre” dei grandissimi Heavy Rain, Beyond: Two Souls e Detroit Become Human. Ecco il nostro racconto e le sue risposte alle domande del pubblico.

David Cage si presenta come una persona umile, comune. Fa fatica a posare per le fotografie e i video che lo stanno immortalando. È l’aspetto da old-school nerd che ci salta subito all’occhio, sintomo di un uomo che, inconsciamente, e nonostante il successo, è più abituato a stare dietro lo schermo di un computer e non davanti ai giornalisti.
Come un vero e proprio guru dei videogiochi, parla con leggera tensione ma assoluta determinazione, la determinazione di chi sa di aver contribuito a cambiare la storia dei videogiochi ma non ne è fiero, ne è grato. Mentre si aggira nervosamente tra i giornalisti intervenuti all’inaugurazione della nuova sezione del Museo del Cinema di Torino, non lo si distinguerebbe da un qualunque ospite, al contrario di altri, più patinati, grandi nomi del panorama videoludico: qualunque nerd che si rispetti riconoscerebbe al volo Hideo Kojima (e sarebbe probabilmente il primo a farsi notare) o Todd Howard, o ancora il folle Yoko Taro, che ci hanno abituati ad annunci in pompa magna e a spettacolari presentazioni, lo stesso non si direbbe per il fondatore di Quantic Dream, eppure, per la masterclass di David Cage, per quanto meno riconoscibile dei suoi colleghi (altrettanto) innovatori, restano solo posti in piedi.

Tante domande, molte esistenziali, e mai abbastanza tempo per farle

Come ha trovato l’accoglienza Torinese?
È emozionante essere qui a Torino, e pur essendo la prima volta che la visito, sono stato molte volte in Italia. Il suo cinema, ovviamente, è stato una enorme ispirazione per i nostri lavori, così come i suoi paesaggi e la sua estetica. Essere in un museo meraviglioso come questo e vedere finalmente riconosciuto il legame tra cinema e videogiochi è una fonte di gioia indescrivibile.

Le opere del tuo studio sono caratterizzate da sempre da una regia paragonabile a quella di un film. Quali autori cinematografici ti hanno ispirato?
Così tanti… sarebbe difficile elencarli tutti, o identificarne uno in particolare. Inizierei con tre macro-categorie: da sempre adoro il film anni 80/90 che hanno segnato il cinema, come Seven o Alien, dopotutto sono i film con cui sono cresciuto, che andavo a vedere al cinema da teenager. Poi crescendo ho scoperto il cinema di altri paesi e ho espanso i miei gusti, soprattutto verso i “classici” degli anni ’60 e ’70. Per il cinema Italiano film come La Strada e gli altri film di Fellini, o quelli di Sergio Leone. Poi mi sono lanciato verso Kurosawa, Coppola, tutti i “classici” del Nuovo Cinema delle varie parti del Mondo.

Partiamo dalle origini. Come ti sei avvicinato ai videogiochi? Come ha influito sul primo titolo di Quantic Dream?
In realtà io ho iniziato come autore e compositore, e ancora oggi suono tutti i giorni, ma poi, ancora da ragazzo, ho iniziato a scrivere ed era una nuova e strana emozione per me. Scrivevo ciò che mi suscitava emozioni e speravo, facendo leggere ad altri il racconto, di suscitarle anche in loro. Amando i videogiochi e avendoli giocati fin da bambino, ho creato questo strano ibrido tra le mie passioni, alla fine, ho sempre cercato di creare videogiochi come mezzo per raccontare delle storie… o per far vivere delle vite alternative. Comunque ancora oggi non ho smesso di dedicarmi alla musica: alcuni dei brani che avete sentito nei nostri trailer, giochi e demo tecniche sono composti da me.
Quando mi sono affacciato sul mondo dei videogiochi, con i fondatori di Quantic Dream, non avevo un progetto esatto in mente, ma tutti noi andavamo avanti da una fase di sviluppo all’altra, una pietra alla volta, fino alle pietre miliari.
Con Omikron: The Nomad Soul andammo a caccia per Londra di publishers, io passavo la giornata in metropolitana, letteralmente con una tower sotto braccio, di ufficio in ufficio. Ci vollero sei mesi per trovare un publisher che accettasse il rischio, dato che erano, sì, ammirati dalla dimensione della città che avevamo creato per il gioco, enorme per l’epoca, ma la consideravano un lavoro troppo grande e complesso per poter pubblicare il nostro titolo. Includeva perfino il motion capture di David Bowie e una sua performance, qualcosa di abbastanza innovativo per l’epoca, sia per il mocap, sia per la scelta di avere un personaggio famoso “ospite” del gioco [In Omikron: The Nomad Soul compaiono anche la modella Iman Mohamed Abdulmajid, moglie di Bowie, e il chitarrista Reeves Gabrels N.d.A.]

Come è avvenuto il cambio di prospettiva rispetto al gioco precedente?
Fahrenheit è stato il primo cambio radicale di idea e di progetto che abbia avuto. Al tempo per la gran parte degli sviluppatori e publishers la storia era solo uno strato sopra l’azione, in un videogioco. E dissi: e se fosse, invece, il focus? Nessuno sembrò però capire l’intenzione, all’epoca. Feci svariati pitch per proporre l’idea di base che sarebbe poi diventata la base di Fahrenheit e nessuno dei publisher riuscì a capire il senso di questo progetto. Forse lo consideravano troppo di nicchia, troppo poco vendibile. Però pensavo: l’interazione non deve essere per forza sparare a qualcuno, potrebbe anche solo essere parlare a tua moglie, compiere una scelta e vederne le conseguenze. Questo per me era la vera rivoluzione, qualcosa di assolutamente nuovo.
La risposta fu positiva alla fine, per quanto non fosse riuscito in tutto quello che speravamo di ottenere, la reazione dei giocatori fu di apprezzamento per il gameplay nuovo e per la struttura narrativa. Per la prima volta, dopo l’uscita del videogioco, mi arrivarono mail e chiamate dai publisher dicendo “scusami, ora ho capito cosa intendessi, quale fosse il risultato che cercavate con Fahrenheit”, fu un momento particolare, mi sentii orgoglioso del risultato, mi sentii finalmente capito.

Parliamo di The Casting e della vostra tecnologia di Motion Capture
Con The Casting cercavo di esprimere, con una sorta di tech-demo, il mio amore per la recitazione e gli attori. Cercavamo di mostrare il potenziale della nuova tecnologia mocap, catturando in diretta gli attori e mostrando, ancora, in diretta, il risultato in grafica. Avevamo modo di mostrare al mondo non soltanto il potenziale recitativo e narrativo dei videogiochi, ma anche il potenziale tecnico del nostro motore e dei nostri sistemi di motion capture. È stato strano e meraviglioso trovarsi nel ruolo del regista, a dirigere gli attori come in un vero e proprio provino prima di un film.

Heavy Rain ha consacrato Quantic Dream come studio pluripremiato. Quale cinema ha ispirato il gioco e cosa volevi ottenere come reazione nei giocatori?
All’epoca ero un neo papà e volevo raccontare una storia di amore incondizionato, di sacrificio assoluto verso gli altri, e l’intenzione era di far sentire quello che io stesso sentivo all’epoca. C’era anche l’intento di spingere il giocatore davanti a dilemmi morali come “Quanto saresti disposto a sacrificarti per le persone a cui tieni? Uccideresti per tuo figlio?”. Il tutto senza giudizi se sia giusto o sbagliato, senza la supponenza di dare delle risposte o imporle, ma solo mettere davanti a una domanda esistenziale il giocatore. Sentire le emozioni dei giocatori e i loro discorsi dopo l’uscita mi fece capire che, con Heavy Rain, eravamo diventati parte delle loro vite.
L’ispirazione sono stati i film come il sopracitato Seven e i noir e thriller anni ’90, e le atmosfere del gioco e alcune delle situazioni li ricordano apertamente.

I risultati dei vostri primi titoli cosa ti hanno insegnato a livello di game design?
Cerchiamo di imparare e modificare il nostro approccio con ogni nuovo gioco. Con Heavy Rain non avevo mai scritto così tanto e cosi intensamente. È stato doloroso, perchè scrivevo sia la storia, sia le altre opzioni, il suo opposto, le varie possibilità e risultati. Cercavamo di imitare la vita, cercando di darti il potere verso ció che accadeva, di decidere. È stato meraviglioso vedere il confrontarsi delle scelte tra i giocatori, il discutere tra loro delle strade che avevano intrapreso. Per rendere l’idea: se con Omikron avevo scritto circa 200 pagine di sceneggiatura, con le varie possibili scelte, strade e finali alternativi in Heavy Rain eravamo arrivati a 2000. Poche di più per Beyond: Two Souls… Per non parlare di Detroit: Become Human… che di sceneggiatura conta ben 4000 pagine!

Beyond: Two Souls già presentava un trailer cinematografico per un film interattivo e vantava attori del calibro di Elliot Page e Wilhelm Dafoe. Un tentativo riuscito di superare lo stereotipo “lessicale” del videogioco e spingerlo verso qualcosa di nuovo, ispirato al cinema ma senza esserlo. Come è nato?
Beyond era nato in un momento di perdita personale. Avevo da poco perso qualcuno di a me molto caro in famiglia. Perciò mi sono chiesto: possiamo parlare della morte in un videogioco? Di cose serie e terribili? Possiamo affrontare il tema del lutto, della capacità di superare il trauma e la separazione? Cosa accadrebbe se fosse fisicamente impossibile? È stato questo il punto di partenza.
Con Elliot Page e Wilhelm Defoe è stato una esperienza nuova ed entusiasmante. Entrambi reagirono subito positivamente al progetto, nonostante li avessimo avvicinati in punta di piedi “Salve, siamo Quantic Dream, facciamo videogiochi, vorremmo avervi nei due ruoli principali del nostro prossimo titolo… questa è la sceneggiatura, nel caso foste interessati”. Accettarono in pochissimo e con istantaneo interesse. Però, gli dissi, sarà un lavoro duro, sono molto esigente come “regista” e non aspettatevi di pensare che solo perchè è un videogioco, potrete lavorare con leggerezza… perchè è esattamente il contrario, proprio perchè è un videogioco. Presero entrambi molto seriamente la cosa, e mostrarono dai primi giorni di mocap una professionalità e una abilità assolute.

Come è nata l’idea, ormai sempre più attuale, di Detroit Become Human?
Il punto di partenza è stata la nostra tech-demo di Kara, un androide che viene smontato. L’idea che ci si accorgesse che provava emozioni mentre veniva smontata, ci spinse a pensare a una storia sulla crescita delle IA. I giocatori che videro la demo del nostro motore rimasero innamorati di Kara e decisi di sviluppare una storia sul tema.
Lo sviluppo mi spinse a incontrare gli sviluppatori di IA in giro per il mondo, visitando i loro laboratori e vedendo con i miei occhi lo sviluppo del loro lavoro. Ricordo che vidi un musicista jazz suonare e venire sostituito progressivamente durante l’esecuzione da una IA che aveva elaborato il suo stile e continuato il suo brano, in maniera indistinguibile da lui.
Questo, in parte, mi spaventò, però, al contempo, mi fece riflettere: a quel punto, quale sarebbe stata la differenza tra umani e Intelligenze Artificiali? Se fossimo arrivati a essere uguali fisicamente e fossero in grado di creare come noi, cosa sarebbero? Non si potrebbero più considerare oggetti, e il considerarli tali sarebbe solo frutto di una mentalità ottusa e retrograda. Dopotutto in passato perfino neri ed ebrei non erano considerati umani, ma non lo erano solamente per il razzismo bianco e incapacità di notare l’uguaglianza umana in ogni suo aspetto.
Perciò Detroit: Become Human divenne rapidamente a tema razzismo, sulla nostra società e sul modo in cui potrà trasformarsi con l’avvento delle intelligenze artificiali e degli androidi. Poi ho pensato a come si sarebbe sviluppata una società intorno a questo nuovo elemento, al punto che, in gioco, viene perfino detto: perchè non ti metti in casa un androide? È frustrante parlare con gli umani, perchè non dovresti preferire una IA? Sono più affabili, sono pensate per supportarti e non darti mai contro, per essere accondiscendenti. Quindi il tema è anche sulla paura “dell’altro”, sul bisogno umano di sentirsi giustificati sempre, anche quando non è giusto. E un po’ sta succedendo ora. Un po’ tutto questo.
Pensate, mi dissero che ambientarlo nel 2039 era un po’ “presto”. Ma da quello che vidi nei laboratori… e che vedo e state vedendo voi stessi ora… forse non ci siamo sbagliati di tanto sulla data. Un po’ fa paura, ma fa anche sperare.

Star Wars Eclipse si affida a un IP come quello di George Lucas, diversamente dagli altri in cui sviluppavate tutto internamente allo studio, cosa possiamo aspettarci?
Dopo Detroit: Become Human volevamo sviluppare qualcosa di nuovo, di diverso. E avevamo la possibilità di collaborare a questo vero e proprio monumento della pop-culture. Lavorare con un creativo come George Lucas e con gli autori di Lucasfilm è stato incredibile.
Come potevamo rendere una cosa del genere, un universo già consolidato, qualcosa sulla libertà di scelta come da tradizione Quantic Dream? Mettere mano a una galassia come quella di Star Wars ci ha dato un po’ di complesso di superiorità, ci siamo sentiti un po’ come degli dei che giocano con il Creato [ride]. Il progetto è incredibile, sia a livello tecnico che narrativo, al punto che abbiamo sviluppato nuove tecnologie apposta per questo gioco e speriamo di poter superare questa sfida, ma questo ce lo diranno i giocatori. Di più, al momento, non possiamo anticipare.

Unreal Engine and Unity, semplici ed economici, ma i limiti non rischiano di portare a un appiattimento generale?
Penso che avere questi sistemi, al contrario, sia una fortuna, perchè permette a chi non puó sviluppare con anni di lavoro ed enormi investimenti, di realizzare comunque giochi. Quantic Dream come Guerrilla, Santa Monica Studios, Square Enix, Insomniac e altri hanno deciso di sfruttare le proprie tecnologie interne perchè richiedono una marcia extra per realizzare i loro progetti e la flessibilità data da un sistema creato ad-hoc, ma il resto rimane comunque ottimo per chi ha la creatività ma non i mezzi economici e fa sì che anche studi indipendenti e “piccoli” possano creare con relativa facilità, dando sfogo alla propria fantasia e permettendogli di far conoscere al mondo i loro primi progetti.

Ringraziando David Cage per la disponibilità a rispondere alle domande (anche se, colpevole solo lo scarso tempo a disposizione, tante altre ancora avremmo voluto porre e di altrettante avremmo voluto sentire la risposta) qui si conclude il faccia a faccia con il fondatore di Quantic Dream, in occasione del premio Stella Blu della Mole alla Carriera a lui dedicato (e primo a riceverlo!)

Il primo passo verso il futuro del primo museo cross-mediale Italiano

Con la premiazione di David Cage, Torino vuole presentarsi ancora una volta come centro dell’innovazione, inoltre, dedicando una sala in espansione e una vasta area online ai contenuti “de-secretati” dalle aziende di videogiochi sulle fasi produttive dei loro titoli, conferma questo intento anche per gli anni a venire. Dagli oggetti di “backstage” e bozzetti preparatori, dai modelli 3D fino alle camere utilizzate per il mocap, per arrivare a masterclass con gli autori e incontri a partire da Luglio 2024, la Fondazione del Museo del Cinema sembra aver riconosciuto il valore artistico dei videogiochi e, soprattutto, vuole sottolineare con forza il legame indissolubile tra giochi e cinema.
Come redazione di 4News.it sarà nostra intenzione seguire da vicino gli sviluppi della nuova direzione presa dai ragazzi della Mole Antonelliana e speriamo di potervi riportare il più possibile delle varie masterclass che si terranno da qui in avanti, raccontandovi i retroscena creativi e non solo dietro grandi titoli del passato e quelli in arrivo.

Edoardo Bechis
Edoardo Bechis
Nerd, ovviamente, e tecnico cinematografico nella vita di tutti i giorni. Se doveste incontrarlo per strada, per metterlo in difficoltà e scacciarlo, chiedetegli se preferisca andare al cinema a vedere un film o a casa a giocare a un GDR. Il resto del tempo libero lo trascorre in live sul lato Twitch di 4News.

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