Un kolossal imperfetto
Alcune storie bramano di venire alla luce e di essere raccontate, soprattutto se giacciono sepolte da tempo nella memoria privata oltre che collettiva. Perché a volte il racconto di un singolo individuo può diventare quello di un popolo, di un Paese intero, di una realtà esposta a continue modifiche e mutamenti sociali. Baarìa di Giuseppe Tornatore è senz’altro una di queste storie. Il titolo del film, che si rifà all’etimologia fenicia dell’antico nome di Bagheria, cittadina in provincia di Palermo che ha dato i natali al regista, non vuole essere, a tal proposito, solo la storia di una famiglia siciliana, che attraversa settant’anni di vicende cittadine e nazionali, a partire dal ventennio fascista, passando per il secondo conflitto mondiale, il referendum repubblicano, fino al periodo dei vari governi partitici; ma aspira a presentarsi come l’affresco di una parte complessa e variegata della Sicilia, con le sue utopie, le sue passioni, le sue battaglie, sempre filtrate dal punto di vista di chi ha abitato davvero in quei luoghi, siano essi contadini, allevatori, venditori ambulanti o artisti. Un film autobiografico, certo, che racconta la storia di un uomo e di un mondo in cui Peppino/Peppuccio Tornatore è cresciuto e dove ha cominciato a maturare la sua grande passione per il cinema. Proprio da qui iniziano infatti le sue prime esperienze a contatto con la celluloide, quando grazie a delle cooperative istituite insieme a degli amici comincia a produrre i primi corti e documentari finchè arriva l’occasione di partecipare in veste di co-sceneggiatore e co-regista al film Cento giorni a Palermo di Giuseppe Ferrara. Da allora tanta strada – non sempre coerente – è stata fatta dal cineasta siciliano, il quale, dopo l’ultima esperienza noir de La sconosciuta, rimette piede, anzi mano nella terra da lui tanto amata e lo fa con la sua consueta capacità di produrre uno spettacolo propriamente visivo, reso qui grazie alla sontuosa ricostruzione storica, il lavoro scrupoloso fatto sui costumi e sulla “lingua” bagherese, per non parlare della magniloquente colonna sonora di Ennio Morricone che accompagna molte delle sequenze più emozionanti di Baarìa. Il film, anche se incentrato sulla storia d’amore tra i due protagonisti Mannina e Peppino, ben interpretati dall’esordiente Margareth Madè e dall’attore siciliano Francesco Scianna, si presenta dunque come un’opera corale, che segue una molteplicità di figure e di eventi senza mai concentrarsi su un nucleo narrativo forte e senza mai risolversi completamente. Del resto, il regista ci ha abituato a storie che riprendono quadri familiari realistici, incapaci di mettere a fuoco il vero volto dei personaggi e tuttavia in grado di parlare direttamente al cuore del pubblico attraverso descrizioni cariche di sentimento. E a volerla analizzare più da vicino, la pellicola in questione non fa altro che inserirsi in una sorta di ideale quadrilogia della Sicilia, che ha avuto inizio con Nuovo cinema Paradiso ed è proseguita saltuariamente negli anni con L’uomo delle stelle e Malèna. Adesso arriva Baarìa, che può definirsi anche un kolossal all’italiana per l’enormità dei costi (25 milioni di euro), il forte dispiego dei mezzi (con tre quarti di set ricostruito integralmente in Tunisia) e soprattutto per le ambizioni del suo autore, impegnato a promuovere ovunque la pellicola e da cui si aspetterebbe il riconoscimento più ambito per la seconda volta. Ma a dire la verità il progetto non convince fino in fondo perché pur testimoniando la smisurata passione di Tornatore per la narrazione a tutto tondo, la bella forma, i colpi ad effetto, e dunque per il cinema nella sua concezione nobile, classica, il film pecca involontariamente di una rievocazione piena di cliché e sentimentalismo, che lo allontana – come gran parte del cinema italiano, capace ormai di guardare solo al passato – dai registri espressivi del cinema contemporaneo e lo consegna ad un immaginario stereotipato, trito e ritrito, di interesse quasi esclusivamente folkloristico.