Midnight Factory ep.2: dell’uomo e gli altri animali
Siamo solo nel 1963 quando un racconto breve di Daphne Du Maurier suggerisce a un certo Alfred Hitchcock la messa in scena di quello che sarebbe poi diventato un classico del terrore, Gli uccelli. Il Re del Thriller realizza così una pellicola nella quale stormi di volatili si scagliano violentemente, senza un apparente motivo, contro l’intera umanità, quasi a configurarsi come inattesa nemesi messa in atto dal mondo naturale per vendicarsi di quella che fino a quel momento si era eretta a sua specie dominante.
Chiaro che trattandosi di Hitchcock l’idea si sia trasformata in una trasposizione vincente. Chiaro che i suoi uccelli sarebbero stati poi destinati a fare scuola, quando, durante gli anni Settanta, sullo sfondo di una ritrovata sensibilità ecologica, nacque un vero e proprio filone, quello degli “eco-vengeance movies”, i quali avrebbero consentito ad orde animali di ogni tipo di guadagnarsi la propria rivincita sull’umana prepotenza.
Un riverbero che si è fatto sentire fino ai giorni nostri, andando a lambire anche quello che sarà il protagonista di questo secondo episodio della rubrica dedicata a Midnight Factory.
Backcountry, però, non trova la propria premessa in nessuna vendetta di tipo ambientale, ma poggia la sua narrazione diretta e cruda su quelli che potremmo definire i cardini fondamentali intorno ai quali ruota la Natura stessa: la funzione ed il caso.
Solo 16 giorni di riprese ed Adam MacDonald, munito semplicemente di una Red Epic, gira, all’interno di una delle aree più remote delle foreste canadesi, tra le conifere dell’Ontario, un film che punta a risvegliare nello spettatore quel senso di impotenza che spesso l’agiata vita cittadina tende a fargli dimenticare.
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Sono un maschio alfa, bimba, che me ne faccio di una mappa?
Ispirato ad una storia realmente accaduta, Backcountry, cattura due incauti campeggiatori e li getta nel bel mezzo della natura incontaminata dove non esiste sovrastruttura dettata dalle convenzioni sociali che tenga. Anzi, sarà proprio la superficialità di un membro della coppia, il tipico maschio alfa ansioso di dimostrare alla sua fidanzata quanto sia un esperto esploratore, che li porterà a perdersi nella foresta canadese mettendoli bruscamente a contatto con quanto di più naturale si celi nell’uomo, tra le necessità primordiali della fame e della sete e i bisogni istintuali di un inferocito orso, come ogni animale selvatico pronto ad uccidere pur di saziare la propria fame. Ci penseranno poi la funzione determinata dagli istinti primigeni ed il caso dominante l’habitat freddo, scuro ed umido molto ben reso dalla fotografia di Christan Belz a fare il resto, proiettando lo spettatore in una vicenda nella quale non ci sarà posto per le conciliazioni pacificatorie tra l’uomo e le altre specie animali tanto care agli animalisti trendy dei nostri giorni.
A sottolineare la crudezza di una vicenda che, assecondando le idee del regista, punta a ridurre tutto ai minimi termini, mettendo in risalto diretto la violenza sanguinaria perpetrata da un mondo naturale privo di scrupoli ed ignaro di ogni convenzione, concorrono la scelta di McDonald di girare il film in un lasso temporale molto ristretto durante la stagione invernale e soprattutto utilizzando un grizzly vero e proprio nelle sequenze più concitate, quasi a voler chiarire l’assenza di ogni critica ed il solo intento di portare sullo schermo la ferocia assassina della bestia contrapposta alla volontà di salvezza degli sprovveduti escursionisti. Il tutto sembra abbia favorito anche l’immersione degli attori, un punto sicuramente a favore del film, specie nelle scene di fuga. Forse la vista di un vero orso a pochi centimetri dal proprio viso è riuscita ad instillare negli attori la paura necessaria a rendere il tutto più credibile.
Una macelleria ambulante
Nonostante l’equivoco iniziale strategicamente messo in scena dal regista, derivante dall’incontro dei protagonisti con una guida privata alquanto bizzarra, sarà evidente fin da subito che la vera minaccia della foresta, la specie dominante nonchè il vero perno del film, saranno rappresentati dall’enorme orso affamato, che tramite i suoi occhi neri privi di luce, il suo sguardo imprevedibile presagio dell’imponderabile, metterà subito in chiaro, in un climax di tensione crescente, culminante nell’efferatezza dell’episodio centrale del suo attacco alla tenda della coppia, che nella natura incontaminata il più forte prende tutto per sé, senza discutere.
Non contano i sentimenti dei protagonisti, non c’è alcuna etica celata sotto la superficie. Solo il racconto netto, crudo e freddo come la stessa foresta di una lotta contro il tempo per la sopravvivenza.
“Non si può mai sapere o capire quando sferrerà il suo attacco e questo lo rende una specie di macelleria ambulante, con lame e punte acuminate pronte a mettersi in moto in ogni momento”, queste le parole di McDonald riferite alla minaccia messa in atto dall’orso e che racchiudono l’essenza stessa del film.
Backcountry, è un film indipendente che agli appassionati del genere potrebbe ricordare il classico di William Girdler, Grizzly l’orso che uccide. La sua natura indipendente è dimostrata anche dalla totale assenza di effetti speciali in post-produzione, la quale contribuisce d’altro canto ad enfatizzare il realismo di una pellicola dove il contatto con il mondo primitivo è tutto.
Certo non sia di fronte ad un titolo che si presta a lasciare un segno indelebile nella storia del cinema o ad una visione multipla che ne consenta di coglierne eventuali aspetti meno evidenti ad un primo sguardo.
Backcountry è semplicemente il film che crediamo dovreste vedere una singola volta, una parabola sinematografica breve, ma sufficiente a ricordarvi che, lontano dalle città, le regole restano invariate e continuano ad essere quelle di milioni di anni fa.
E che senza un cellulare o un GPS a fargli da guida, l’uomo potrebbe tornare facilmente ad essere una semplice preda come tutte le altre.