Recensione Il Profeta

il-profeta-thumbLa scalata al potere di un antieroe

Malik è un ragazzo di diciotto anni, analfabeta e senza una storia precisa. Non sa leggere né scrivere, non ha una famiglia e neanche un domicilio fisso. L’unica cosa certa è la condanna a sei anni per aver aggredito un poliziotto. Entrato in galera con rassegnazione, mostrando un carattere fragile e solitario, il giovane capisce ben presto che la vita tra le sbarre non è facile e deve imparare a sopravvivere se non vuole morire. Così, Malik entra prima sotto la protezione del potente clan dei còrsi, poi, grazie alla sua straordinaria capacità di adattamento e al suo coraggio, riesce a cambiare un destino fatto di sottomissioni per raggiungere un livello superiore di potere, arrivando a diventare leader egli stesso.

È questa, riassunta in poche righe, la trepidante storia de Il profeta (Un prophète), film del regista francese Jacques Audiard che, dopo pellicole originali come Sulle mie labbra (Sur mes levrés) e Tutti i battiti del mio cuore (Se battre mon coeur s’est arreté) – molto apprezzate dal pubblico ma anche dalla critica per la loro lucidità e coerenza stilistiche – torna sul grande schermo con un lungometraggio in grado di spingere fino alle estreme conseguenze la sua personalissima idea di cinema, fatta di un crudo realismo infarcito da numerose citazioni di prison e crime-movie, sempre contestualizzate rispetto alla storia narrata. La materia di cui si parla qui è di quelle che scotta, in cui a prevalere è un universo fortemente maschile e maschilista che Audiard riesce però a restituirci sotto forma di parabola sull’assurdità dei comportamenti umani, per lo meno quelli rinchiusi all’interno di un microcosmo come è il penitenziario. Il carcere, infatti, è vissuto come una sorta di torre di Babele dove si parlano mille idiomi diversi, dove mille tradizioni e culture si scontrano ogni giorno, elementi accomunati e regolati unicamente dalla violenza e dai rapporti di potere, a cui tutti, volenti o nolenti, devono sottostare. Questo luogo chiuso e rinchiuso in sé stesso diventa anche specchio della società odierna, in cui troviamo Malik, un giovane ragazzo arabo abile a muoversi sempre sul filo del rasoio, come un equilibrista, il quale attraverso la sua “mala-educazione” diviene un antieroe del mondo contemporaneo e prova a comunicare un grande messaggio: osservare ciò che ci circonda per imparare a vivere.

Una raffinata operazione, dunque, quella tantata dal cineasta francese, che non si limita alla messa in forma di un romanzo di formazione, in cui si racconta la nascita di un nuovo Mackie Messer, come sottolineano esplicitamente i titoli di coda con le note di Mack the Knife da L’opera da tre soldi di Weill-Brecht (non è un caso che Jacques Audiard abbia scelto proprio quella canzone per chiudere la sua pellicola, anche se la carriera del lesto criminale non si srotola più nell’Inghilterra vittoriana, bensì nella Francia odierna, feroce e multietnica, dentro e fuori le mura carcerarie), ma mira soprattutto a una acuta rivisitazione del genere gangsteristico, filmato con una completezza visiva e narrativa a metà strada tra Martin Scorsese e Alan Parker ma lontano da qualsiasi stereotipo. Memorabile a questo proposito la sequenza della sparatoria in macchina, effettata con il timewarp, in cui Malik si abbandona per un attimo all’estasi di un momento “da film” nella sua vita, irridendo ancora una volta il destino.

Il profeta è insomma un film da non perdere sotto tanti aspetti, nominato agli Oscar come miglior film straniero e accolto da lunghissimi applausi e ovazioni al Festival di Cannes, dove è riuscito a portarsi a casa il Grand Prix. Centocinquanta minuti di grande impatto, in cui la mano o meglio il pugno del regista d’oltralpe è presente e vuole volontariamente colpirci alle viscere, riuscendo a tenercele strette per tutta la lunga ma assolutamente necessaria durata del film.


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