Recensione Metal Gear Solid 5: The Phantom Pain

L’ultimo “masterpiece” del grande Hideo Kojima.

Versione testata: PlayStation 4, Xbox One

Dopo ben 7 anni dal grande successo ottenuto con Metal Gear Solid 4: Guns of The Patriots, uno di quei titoli che effettivamente è stato in grado di spingere da solo le vendite di PlayStation 3, Hideo Kojima ritorna nuovamente sotto i riflettori con il nuovo titolo dello storico franchise: parliamo di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, che narra gli eventi successivi al prologo che era Ground Zeroes. Questa volta tutto è diverso, vuoi un po’ per i burrascosi motivi che hanno portato alla separazione fra lo storico Producer giapponese e Konami, un po’ perché in sostanza The Phantom Pain dovrebbe dare in qualche modo la giusta conclusione ad una saga che ha fatto la storia del mondo videoludico.

{media load=media,id=10274,width=853,align=center,display=inline}

A Hideo Kojima Game

Sono passati nove anni dagli eventi di Ground Zeroes e Snake (o meglio Punished Venom Snake) si risveglia in un letto di ospedale (visto svariate volte nei trailer di presentazione del gioco stesso), malconcio e con centinaia di frammenti dell’esplosione in corpo che sembrano quasi enfatizzare in qualche modo la resurrezione del nostro eroe; al contempo, però, lo avvicinano sempre più alla morte in quanto la maggior parte di tali frammenti sono collocati vicino al suo cuore e al suo cervello. Il prologo di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, dalla durata di oltre un’ora, inizia con la stessa cruda violenza con la quale si era concluso Ground Zeroes e quindi ricollegandosi al finale di quest’ultimo, ma questa volta il nostro Snake è ben lontano dall’essere quell’abile combattente in grado di affrontare missioni al limite delle capacità umane, poiché 9 anni di coma sono tanti e il ricordo dei tragici eventi vissuti di certo non aiutano. Anzi, dopo il risveglio ci sono volute tante altre settimane affinché il nostro protagonista tornasse quantomeno in parte se stesso e accettasse la realtà dei fatti così come era sia a livello mentale/emozionale e sia a livello fisico.

Sin dai primi minuti di gioco si capisce che The Phantom Pain potrebbe dare effettivamente una degna conclusione alla celeberrima saga, facendo sì che tutte le preoccupazioni derivate da Ground Zeroes siano effettivamente abbandonate anche grazie, ancora una volta, alla capacità di Kojima di osare e di spingersi ben oltre (a dir la verità, molto oltre), dove nessun’altro si sarebbe mai spinto. Purtroppo, l’effetto adrenalinico inizia a scemare non appena terminato il prologo, poiché la struttura di gioco si avvicina enormemente all’open world di Peace Walker, facendo quindi storcere il naso ai fan di vecchia data e riportando il giocatore ad approcciarsi al gioco in maniera più cauta e probabilmente meno emozionale rispetto ad uno Snake Eater o al più recente Guns of The Patriots. I cambiamenti rispetto ai vecchi capitoli si sentono e soprattutto in termini narrativi manca quella epicità che ha contraddistinto i passati titoli della serie. Sebbene dietro alla sadicità e alla mancanza di emozioni del nostro principale nemico, ovvero Skullface, si celi sostanzialmente una vendetta ben orchestrata e una storia a tratti ben strutturata, sembra comunque che manchi quel tassello finale che possa far di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain quel “masterpiece” che tutti noi speravamo. The Phantom Pain è arrivato probabilmente nel periodo giusto e sicuramente ad una distanza davvero notevole rispetto allo scorso capitolo della serie, rappresentando nel bene e nel male un cambiamento epocale per il brand e per quanti vi abbiano lavorato a partire da Hideo Kojima, passando po’ per la Kojima Productions e infine arrivando alla stessa Konami.

L’atipicità dell’open world

Una volta scesi sul campo di battaglia, si intuisce all’istante che da un lato la struttura di gioco è molto simile a quella di Ground Zeroes, con meccaniche stealth ben realizzate che grazie all’introduzione della Reflex Mode, che permette di annullare l’allerta, e un nuovo sistema di recupero della salute sembrano quanto mai azzeccate; dall’altro, la presenza della nuova Mother Base (ricostruita da Venom Snake, Miller e Ocelot e ubicata nelle Seychelles), ripresa in pratica da Portable Ops e Peace Walker, va a definire l’aspetto più gestionale del gioco, in quanto avremo modo durante le varie missioni di raccogliere i materiali necessari a far salire di livello la nostra base e di accrescere il nostro esercito.

Naturalmente, molti di voi si staranno chiedendo se effettivamente si tratti di un Metal Gear open world. Diciamo che la risposta potrebbe essere un “ni” in quanto sì, è possibile esplorare le vaste zone disponibili alla ricerca di collezionabili o comunque dei materiali necessari, ma in fin dei conti la libertà di poter interagire con l’ambiente circostante è davvero limitata e forse, alla lunga, l’esplorazione un po’ fine a sé stessa, pertanto il tutto potrebbe stancare. The Phantom Pain comunque risulta essere per ovvi motivi il Metal Gear più dinamico e meno schematico mai realizzato da Kojima, che permette al giocatore di poter decidere quale approccio adottare per affrontare le varie missioni e quindi richiamando sotto certi aspetti Snake Eater in quanto qualora si venisse scoperti si può andare giù pesanti a colpi di mitra.

La struttura pensata dal buon Hideo prevede che ogni obiettivo di una certa missione sia circoscritto ad una determinata area di gioco, più o meno vasta (che come detto in precedenza può essere esplorata); tale decisione ha permesso quindi di concentrarsi maggiormente sugli incarichi e sulle ambientazioni di gioco più “importanti” in riferimento alla trama principale e di realizzare un giusto connubio fra free-roaming e quest principali. Naturalmente la possibilità di poter esplorare le zone circostanti influenza inevitabilmente anche il ritmo di gioco, che inizialmente parte con il cosiddetto botto e che poi potrebbe (anzi va) a scemare gradualmente soprattutto perché dobbiamo pianificare al meglio le nostre azioni, utilizzando il nostro indispensabile binocolo che permette di marchiare i nemici e gli obiettivi in modo tale da poter poi capire come approcciarsi al meglio, aspettando, il più delle volte, anche il favore dell’oscurità. L’alternanza fra giorno e notte, infatti, insieme al cambiamento delle condizioni atmosferiche, non solo influenza la visibilità nostra e dei nemici, ma porta a dei cambiamenti radicali anche in termini di sorveglianza da parte di questi ultimi.

In aggiunta avremo a disposizione anche l’iDroid, una sorta di interfaccia computerizzata attraverso la quale sarà possibile selezionare le missioni, richiedere l’equipaggiamento sul campo da battaglia e controllare i progressi della nostra Mother Base; uno stumento indispensabile che però risulta essere un tantino complesso da utilizzare in alcuni frangenti e difficilmente si riuscirà a memorizzare l’intero menù a disposizione con le varie funzioni disponibili. La maggiore dimensione della mappa di gioco rappresenta un’evoluzione di quanto visto in Snake Eater, portando il giocatore a percepire che qualora la mossa non venisse adeguatamente ponderata, le conseguenze potrebbero essere devastanti sotto certi versi ma offrendo comunque quel pizzico di imprevedibilità che non guasta mai.

Uno degli as
petti meno “seri” implementati dalla Kojima Production è il Fulton Recovery System, un palloncino aerostatico auto-gonfiante e derivante direttamente da un reale sistema militare di recupero dei materiali che se adeguatamente utilizzato e potenziato permetterà al nostro Venom Snake di recuperare qualsivoglia oggetto o persona e di spedirlo direttamente al campo base. Man mano che si prosegue nel gioco e soprattutto si potenzia il sistema Fulton, avremo modo di recuperare facilmente veicoli corazzati e contenitori carichi di materiali oltre ai soldati necessari ad accrescere le file del nostro esercito privato. L’importanza di tale sistema di recupero è enorme, anche perché permette di salvare i prigionieri in un batter d’occhio, accrescendo ulteriormente il nostro grado di eroicità e di “eliminare” soldati nemici tramortiti, facendoli volare con il nostro pallone aerostatico.

Qualora vi sentiate frustrati perchè non riuscite a superare i nemici, avrete la possibilità di ricorrere all’altra genialata di Kojima, ovvero il Chicken Hat: questo particolare e bizzarro “cappello” vi renderà meno visibili ai nemici e in maniera molto irriverente sarà anche visibile nelle cut scene di gioco; tale “trovata” non è però stata ben accolta dalla maggior parte dei fan della serie e insieme al Fulton Recovery System sembra quasi dare quel tratto di comicità alla serie come mai si era visto prima d’ora.

Metal Gear Solid 5 The Phantom Pain 8

Il Fox Engine in formato serpente

Tecnicamente parlando, Metal Gear Solid V: The Phantom Pain risulta essere un titolo molto valido, merito soprattutto del Fox Engine che ha permesso al team di sviluppo di concentrarsi maggiormente sulle animazioni e sulle espressioni facciali dei personaggi. La più importante dimostrazione circa la validità del motore grafico è comunque data dalla vastità della mappa di gioco, che soltanto in alcuni casi ha portato lo sviluppatore a ridurre leggermente l’impatto visivo di alcuni elementi circostanti. D’altro canto, anche gli effetti luce e particellari sono realizzati in maniera quasi maestosa così come il ciclo giorno/notte e i cambiamenti atmosferici. Durante la nostra avventura è stato quasi impossibile non fermarsi per ammirare il panorama del vastissimo Afghanistan, in quanto la cura dei dettagli rasenta quasi la perfezione; stessa cosa vale per la pluralità di elementi visibili in Sud Africa, a dimostrazione che il lavoro nel realizzare il tutto è stato davvero notevole.

Il tutto si va a mescolare egregiamente con il gameplay di gioco (che gira ottimamente a 1080p e 60 frame per secondo con sporadici cali in alcune concitate situazioni), che risulta al contempo essere supportato da un comparto audio davvero potente che dà al gioco un taglio molto cinematografico non solo per quanto riguarda la colonna sonora, ma bensì anche in riferimento agli effetti ambientali che ci circondano.

E la versione Xbox One ?
La versione Xbox One da noi testata (al day one è stata applicata la patch 1.01) ha invece una risoluzione bloccata a 900p (1600×900) ma un frame rate più stabile sui 60 frame per secondo. La minore risoluzione, inoltre, pare avere una certa influenza su alcune cut-scenes in cui si assiste a veloci close up o a scene in movimento, rendendo visibile una leggera scia di pixel come contorno dei soggetti. Altra piccola mancanza della versione Xbox One è l’assenza del subsurface scattering, una particolare tecnica di illuminazione dinamica della pelle che permette alla luce di filtrare attraverso l’epidermide del soggetto restituendo così un immagine molto più naturale e meno piatta. Se si escludono questi elementi, le due versioni sono del tutto identiche.

Per quanto riguarda invece l’Intelligenza Artificiale, nel complesso risulta essere abbastanza buona e bilanciata sebbene, qualora dovesse scattare l’allarme, i nemici tenderanno a cercare Snake dirigendosi verso l’ultima posizione conosciuta e soltanto in alcuni casi tale ricerca porterà gli stessi a separarsi per setacciare la zona. Probabilmente l’elemento meno convincente dell’ultima fatica di Kojima è quel tratto di complessità che il producer giapponese ha voluto inserire nel gioco: a differenza dei trascorsi capitoli della serie sembra tutto più complicato, anche per quanto riguarda la gestione dei comandi e dei menù. Naturalmente, pure la scelta di rendere in qualche modo il gioco “open world” di certo non agevola la giocabilità dello stesso. Sia chiaro che non voglio criticare questa scelta, ma probabilmente scelte più “semplici” avrebbero sicuramente aiutato non solo dal punto di vista prettamente di gameplay, ma soprattutto in termini narrativi in quanto ad un inizio con il cardiopalma via via svanisce quella magia che ha fatto di Metal Gear quel capolavoro che tutti noi abbiamo apprezzato ed amato.

Purtroppo, la trama finisce per diventare quasi fantascientifica e a tratti grottesca, ma con alcuni intermezzi che richiamano anche i trascorsi capitoli risulta essere più che passabile, anche se incapace di farci emozionare al pari di Snake Eater oppure di Guns of The Patriots.

Commento finale

Metal Gear Solid V: The Phantom Pain rappresenta senza ombra di dubbio un ottimo titolo che sebbene risulti essere imperfetto sotto diversi aspetti, probabilmente in tale imperfezione va a rappresentare pienamente l’idea di Hideo Kojima e del suo team. Purtroppo, come mai successo prima d’ora in un Metal Gear, la narrativa risulta essere a tratti troppo diluita e forse anche al limite del surreale (però non ditelo a Kojima), non riuscendo ad offrire quel senso di epicità e di maestosità soprattutto ai fan più vecchi della serie. L’elemento che risulta essere meno convincente è proprio la gestione “forzata” della Mother Base e della sua complessità in generale, volendo in tal modo richiamare prepotentemente Peace Walker ma al contempo offrendo al giocatore un gameplay simil Snake Eater. Naturalmente, anche gli elementi “negativi” rientrano in qualche modo nella genialità di Kojima e The Phantom Pain ne è la dimostrazione assoluta: l’approccio stealth in un mondo quasi open world, ad esempio, risulta essere davvero un colpo di genio che rappresenta sicuramente quella ventata di freschezza di cui il gioco aveva bisogno, sebbene possa far storcere il naso ai più fedeli appassionati della saga. Fatto sta che in definitiva The Phantom Pain dà quel senso che ormai il franchise sia effettivamente giunto al capolinea e non possiamo che considerarlo un degno capitolo per salutare il nostro amato Snake.

Pro Contro 
– Gameplay molto solido
– Fase iniziale e finale della narrativa molto coinvolgente
– Tecnicamente eccezionale
– Una storia che manca di quell’epicità tipica di Metal Gear
– Gestione di alcuni elementi un tantino complessa
– Intelligenza Artificiale da migliorare
  Voto Globale: 90 
 
{vsig}/games/multi/Metal_Gear_Solid_5_The_Phantom_Pain/20150904/{/vsig}

Rispondi

Ultimi Articoli