La censura è davvero l’unica soluzione?
Sono tra coloro che difenderanno sempre, a spada tratta, la libertà di qualsiasi medium – sia esso il cinema, la letteratura o appunto i videogames – di esprimersi come meglio crede e mi trovo d’accordo con chi ritiene che sia compito dei genitori insegnare i valori veri, prima di dire che altri sono sbagliati, dare il buon esempio prima di imporre divieti.
Sono anche d’accordo sul fatto che le parole della giornalista del Corriere della Sera sono intrise di moralismo d’accatto, becera ignoranza rispetto all’argomento di cui si è fatta giudice, ed errori e imprecisioni davvero grossolani. Tuttavia chi frequenta il mondo dei videogame, chi ci lavora, giornalisti, blogger, non può bollare sempre e comunque le critiche come stupide e insensate; non può trincerarsi dietro il PEGI con la classica frase “se c’è scritto vietato ai minori…“
Non funziona così, non può funzionare così.
Sono anche tra coloro che hanno amato all’inverosimile la produzione Rockstar: profonda, tecnicamente brillante, narrativamente emozionante. Tuttavia, alla tenerà età di 30 anni suonati, sono rimasto più di una volta sconvolto dalla brutalità delle immagini a schermo, delle azioni che mi si chiedeva di compiere (la scena della tortura su tutte). Mi ritengo una persona di principio con tanti dubbi e qualche certezza, abituata a vedere, leggere e lavorare su ben altre nefandezze; eppure dinanzi a quelle immagini, ho provato un malessere fisico, letteralmente. Riflettendo sulle sensazioni provate in quell’occasione non ho potuto far altro che pensare al fatto che, probabilmente, piuttosto che la violenza per la violenza, l’intenzione degli sviluppatori era proprio suscitare quello sdegno, quella aberrazione, che io e, mi auguro, tanti altri, hanno provato nel far compiere a Trevor quelle scelleratezze.
Tuttavia, se questa è stata la mia reazione, non sono sicuro che lo stesso abbiano provato altri milioni di videogiocatori in tutto il mondo. La loro reazione potrebbe essere stata sicuramente più fredda e distaccata rispetto alla mia, o, senza arrivare agli eccessi di una ammirazione che può trasformarsi in emulazione, anche di compiacimento. Riferirsi a costoro come squilibrati, francamente mi pare eccessivo. E’ indubbio che se questa è la sensazione che un videogame può suscitare, grazie anche all’immedesimazione generata dalla interattività con cui si vivono quelle scene, la tutela dei minori non può essere affidata ad un simbolo, ad un numeretto come il PEGI o ad una frase “vietato ai minori”. E’ evidente, come lo è per l’alcool, le sigarette, la pornografia che è necessario un controllo che, ben lungi dalla censura, vada al di là della semplice autoregolamentazione. Se i genitori per incuria, negligenza, ignoranza, non sono in grado di attendere all’istruzione dei propri figli, e i videogames, nell’opinione che ho di questo medium, sono al pari di un libro o di un’opera cinematografica, è necessario l’intervento dello Stato, che, nella sua funzione di supremo garante del pieno e corretto sviluppo della persona umana, come sancito dall’art. 3 della Costituzione, finanche prevedendo delle sanzioni, contribuisca alla responsabilizzazione di coloro che attendono al commercio di tali prodotti.
Qualche mese fa, in occasione dell’uscita proprio di GTA (versione remastered, ndr) mi sono recato in una nota catena specializzata in videogames – di cui non c’è bisogno evidentemente che faccia nomi – per acquistare non ricordo bene cosa. Dinanzi a me un padre ed il suo piccolino, che avrà avuto al massimo 8 anni, dietro di noi una fila di ragazzini ansimanti e desiderosi di spendere i loro soldini per acquistare un gioco che, secondo il PEGI non avrebbero potuto acquistare. Fosse stato alcool, sigarette o materiale pornografico, ci sarebbe stato sicuramente materiale per una sanzione, eppure, in questo caso, il commesso come nulla fosse distribuiva tranquillamente le copie incriminate. Non un gesto, uno sguardo di intesa con il cliente affezionato: il prodotto c’è e si può vendere, a chiunque. Il discorso certo lo si potrebbe fare anche per il cinema, o per la televisione (dove peraltro la violazione di fasce protette comporta una sanzione anche piuttosto consistente per l’emittente televisiva), ma noi siamo qui per parlare di videogiochi e il discorso di chi dice “se non lo fanno gli altri perché dovremmo farlo noi” francamente non mi è mai piaciuto. In conclusione, se censurare è probabilmente la soluzione peggiore, scaricare la colpa sul giornalista ignorante o sul genitore poco attento è parimenti sbagliato.
Occorre una seria e consapevole presa di coscienza da parte di tutti: critici, venditori, giocatori affinché attraverso la conoscenza e soprattutto la responsabilizzazione di tutti i passaggi della “filiera” – dal genitore, al giornalista, dal blogger al videogiocatore – il medium videogioco possa superare la penombra del sospetto dove pare qualcuno voglia relegarlo ed essere finalmente legittimato nella sua essenza di opera dell’ingegno, anche agli occhi della casalinga di Voghera.
Editoriale a cura di Arturo D’Apuzzo, direttore di 4News.it
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