L’ennesima ricostruzione anacronistica del ’68
Ecco dunque materializzarsi, a seguito di tante polemiche e di una lunga gestazione, il grande sogno dell’attore/regista che partito diciottenne dalla Puglia alla volta della Capitale con il desiderio incessante di recitare sul palcoscenico, si ritrova a fare il poliziotto per guadagnarsi da vivere, venendo così a contatto diretto con il clima di rivolta sociale. Placido si rispecchia abbastanza fedelmente nel personaggio di Nicola, interpretato da un corrucciato e vernacolare Riccardo Scamarcio, a cui affida l’onere di rappresentare non solo la sua vicenda personale ma anche e soprattutto la storia di una generazione piena di speranze e illusioni, facendo riferimenti a personaggi reali ancora viventi, i quali provengono dal passato suo e di quello di suoi collaboratori e amici. In fondo, la pellicola parla principalmente di sogni, quelli privati e quelli collettivi, e ognuno dei personaggi portati sullo schermo ha infatti un suo sogno da realizzare e per cui combatte: dalla bella e sobria Jasmine Trinca che da buona “cattocomunista” aspira a una società più egualitaria al fanatico capo della rivolta – un maturo Luca Argentero – che anela a cambiare il mondo.
Ma al di là delle buone intenzioni, il film di Michele Placido non convince più di tanto a causa della presenza di personaggi stereotipati, ambientazioni poco realistiche e uno stile che in alcuni momenti dà l’impressione di essere artefatto. Per non parlare della superficialità con cui vengono riprese le scene di massa e di protesta, inframezzate da sporadiche immagini d’archivio in cui si insinua uno sguardo troppo didascalico e di maniera. Anche se ci sentiamo distanti da operazioni analoghe, come quella, ad esempio, tentata da Marco Tullio Giordana con La meglio gioventù – a cui è impossibile non pensare guardando questo film – è d’obbligo riconoscere che in quel caso l’approfondimento del quadro storico unito a quello del profilo psicologico dei personaggi avevano quantomeno suscitato un interesse maggiore rispetto al lavoro svolto del regista pugliese. Non sappiamo se il filtro della memoria di Placido abbia influenzato negativamente l’approccio alla storia così da portare il pubblico a non riconoscersi tanto con quei sessantottini animati da grande forza e vitalità, che vengono però tratteggiati un po’ alla rinfusa. Quello che è certo è che Il grande sogno risulta essere poco interessante dal punto di vista cinematografico e si risolve in un mix forzato di storicismo e autobiografismo, con l’unico pregio – se così lo si può intendere – di allungare ulteriormente la lista dei film dedicati a questo importante e delicatissimo periodo storico.