Recensione Nemico Pubblico

Dillinger è morto?

In un America sconvolta dalla crisi del ’29, i fuorilegge spadroneggiano per le strade di Chicago. Tra questi il più temuto è John Dillinger, leggendario rapinatore di banche ma anche ladro gentiluomo. È contro di lui che la neonata FBI, guidata dallo spregiudicato direttore Edgar Hoover, scatena una caccia all’uomo senza precedenti, servendosi di ogni mezzo (lecito e non) a sua disposizione. Ma nessun uomo e nessuna prigione potevano fermare Dillinger, il cui fascino e le cui audaci evasioni dal carcere furono capaci di conquistare l’opinione pubblica statunitense. La storia di Nemico pubblico è tratta dal romanzo omonimo di Bryan Burrough, ex giornalista del Wall Street Journal e corrispondente speciale di Vanity Fair, che basandosi su centinaia di migliaia di documenti inediti degli archivi federali è stato capace di riportare indietro il tempo, ricostruendo con grande efficacia l’America feroce degli anni Trenta. Sulla stessa linea si è mosso il regista Michael Mann, tornato dietro la macchina da presa a distanza di anni da Miami Vice, la cui sfida principale qui è stata quella di far rivivere il 1933 e renderlo vivo proprio come se fosse l’epoca attuale. Gran parte del merito va anche a Dante Spinotti, suo storico collaboratore e direttore della fotografia, che è riuscito ad epurare il film da tutti quegli elementi riconducibili a una patinata ricostruzione d’epoca. A conferma di ciò, Mann ha deciso non solo di girare in alcuni dei luoghi dove la storia è realmente accaduta – come il carcere di Lake County nell’Indiana, la pensione Little Bohemia nel Wisconsin e il cinema Biograph in Lincoln Avenue a Chicago – ma è riuscito altresì a fornire a Johnny Depp gli articoli personali nonché gli abiti realmente indossati da Dillinger. Il tutto dettato certamente dalla grande scrupolosità e attenzione maniacale per i dettagli da parte del regista americano, proteso nello sforzo di esaminare quest’epoca turbolenta attraverso l’esperienza di un criminale che è diventato l’eroe popolare di una generazione, John Dillinger appunto. Egli rapinava le stesse banche che avevano impoverito gli americani ed era più furbo e abile delle istituzioni che avevano fallito nel trovare un rimedio per quei tempi difficili. Nel film, Mann si unisce a Depp per esaminare la delicata psiche e il tormentato carattere di quest’uomo. L’attore, cresciuto a meno di 160 miglia dalla casa d’infanzia di Dillinger, si è dimostrato il più adatto per rappresentarne la durezza d’animo ed è stato perfetto nell’immergersi completamente nella difficile personalità del gangster. Michael Mann segue le sue peripezie utilizzando un registro espressivo che lo avvicina molto all’atmosfera di sue pellicole precedenti come Heat – La sfida (film in cui recitano insieme per la prima volta De Niro e Al Pacino), dove gli elementi epici si amalgamano con quelli thriller e del film d’azione confluendo in una sorta di opera d’arte totale, di matrice wagneriana e di stampo post-classico.

 

Mentre sullo schermo viene proposto un regime di narrazione sostanzialmente classico, in cui l’immagine mantiene ancora i suoi rapporti di causa-effetto, l’occhio di Mann, nascondendosi nei pixel del digitale o nel negativo della pellicola, si fa più introspettivo e si concentra solo sui personaggi, complessi e sfaccettati, al centro di una danza di potere e morte. Del resto, Mann è uno di quei cineasti ancora capaci di esplorare l’animo di individui che si trovano in circostanze estreme e riesce nel suo intento donando alla storia una verosimiglianza e una potenza cinematografica del tutto particolari. Mirabile la sequenza, tutta al ralenti, in cui Depp entra indisturbato nel quartier generale dell’FBI di Chicago che gli sta dando la caccia e osserva, con una tranquillità paradossale, i ritagli di giornale e le schede che ricostruiscono gli ultimi anni della sua vita, vissuti in quel modo così dissoluto e pericoloso. Alla fine, l’eroe mannniano non può ovviamente farcela e rimane da solo senza la possibilità di ricongiungersi con la sua amata. Il Brasile è troppo lontano, come troppo lontano erano le isole Fiji per Niel e Eady in Heat. La fortuna di Dillinger si esaurì ben presto, all’uscita della proiezione di Manhattan Melodrama (elemento metacinematografico inusuale per il regista, che identifica la sua icona con un divo del cinema come Clark Gable), dove gli ufficiali di polizia lo misero a riposo con una pioggia di pallottole. Ma la sua leggenda non fece che crescere.

 

 

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