Una sola vita non basta!
Cosa rende diverso il videogioco in quanto medium narrativo? Che è interattivo, per definizione. Ma attenzione: è ben diverso dall’essere un filmato interattivo. Ciò che davvero lo contraddistingue è la possibilità di calare lo spettatore all’interno dell’opera, trasformandolo nell’interprete. L’idea di rompere il limite intrinseco tra racconto e fruitore non è certo nuova, basta pensare che negli anni ‘20 Pirandello usava il teatro nel teatro per sovvertire il rapporto tra palcoscenico e pubblico, ma mai nessun mezzo di narrazione è arrivato dove invece possono i videogiochi.
Dall’interattività, caratteristica fondante, ne deriva un’altra, importantissima: l’immersività. La capacità di un videogioco di consentire al giocatore di interagire con gli oggetti che vede attorno a sé, con gli altri personaggi e quindi di influenzare il corso degli eventi, lo rende immerso nella storia, gli dà la sensazione di farne parte.
Per anni sono girate varie immagini sul web, alcune molto pacchiane, che però esprimevano più o meno lo stesso concetto: “in quanto giocatore, ho vissuto migliaia di vite diverse”. Al di là dell’ovvia volontà dei videogiocatori di volersi affermare in modo diverso dall’immagine classica del nerd che la società gli affibbia, questo concetto racchiude anche l’idea che sta alla base della narrazione videoludica, ma soprattutto un fatto di cui prendere atto: chi è cresciuto da videogiocatore, sente davvero di aver vissuto sulla propria pelle le storie a cui ha preso parte. Ed è una cosa da non sottovalutare assolutamente: significa che a livello emotivo e morale questo medium è capace di toccare gli animi e muovere le coscienze almeno quanto gli altri.
Questo binomio di caratteristiche, se sapientemente sfruttato, dà la possibilità agli sviluppatori di fare più che raccontare una storia: dà il potere di far vivere un’esperienza. Il videogioco è proprio questo, un’esperienza, uno stralcio di vita attraverso gli occhi del protagonista di una vicenda, che va oltre il semplice racconto di una storia.
Parliamo di pratica
Parlando del videogioco in questi termini, ci sono vari esempi da citare, ma prima ancora che singoli titoli, interi generi. Uno di quelli che sicuramente più di tutti ci immerge nei suoi mondi virtuali è il gioco di ruolo. Nonostante una certa tendenza di quelli giapponesi moderni a raccontare storie con personaggi molto marcati, i canoni del genere sono ben diversi. Basta pensare alla saga di Ultima, uno dei padri del gioco di ruolo, per ricordare come si potessero dare dei nomi ai personaggi che avremmo interpretato. Tali nomi venivano poi utilizzati per tutta l’esperienza, in ogni dialogo, nel tentativo di calare il giocatore in prima persona all’interno dell’intreccio narrativo. Anche oggi nei giochi di ruolo di stampo occidentale, così come nei massive multiplayer online, non solo possiamo scegliere un nome, ma anche creare il personaggio che interpreteremo, arrivando in alcuni casi a poter scegliere, a grandi linee, l’intera biografia del nostro alter ego. Basta pensare ai grandi classici occidentali del genere, come Baldur’s Gate o Dragon Age, o anche ai più recenti Pillars of Eternity e Divinity: Original Sin.
Senza dimenticare che anche nel panorama giapponese odierno c’è una saga che fa dell’immersione del videogiocatore la sua base fondante: Dark Souls e tutti i titoli da esso derivati, incluso Bloodborne. In questi giochi non solo possiamo costruire il nostro personaggio nelle fattezze, scegliere la classe e in alcuni casi la biografia: siamo a tutti gli effetti testimoni di un mondo fantastico e di una civiltà decaduta. L’esperienza, in questo caso, assume una dimensione quasi storica, dandoci il compito di ricostruire i fatti del passato attraverso architetture e dialoghi, oggetti e note trovate lungo il nostro cammino.
Personalizzazione è sempre sinonimo di immersività?
Dopo aver parlato tanto di personalizzazione, bisogna sottolineare un aspetto in termini di sviluppo: è una scelta stilistica impegnativa, non per forza necessaria per trascinare l’utente dentro il mondo di gioco. Quando una software house decide di dare la possibilità al giocatore di creare il protagonista, dovrebbe farlo con la consapevolezza che dovrà affrontare una sfida. Infatti costruire la trama attorno a un protagonista ben definito, come per un film o per un libro, implica che la scrittura sia libera di assecondare il carattere del personaggio. Così facendo questo farà scelte credibili e coerenti. Invece la difficoltà di non sapere a priori i tratti caratteriali del protagonista sta nel modellare il racconto addosso a un personaggio indefinito, che prenderà forma solo quando il giocatore interagirà con il gioco, e nel riuscire a rendere gli eventi credibili e sensati.
Quante volte abbiamo assistito a titoli che vantavano una estrema personalizzazione, poi rivelatasi poco coesa con la trama o con aspetti del gameplay? Quante volte abbiamo dato sfogo alla creatività e modellato personaggi per poi scoprire che era stato soltanto un inutile esercizio estetico? Sono invece rari i casi in cui una storia riesce a cucirsi bene addosso all’avatar che il giocatore ha costruito, assecondando le sue scelte, quali che siano, senza risultare forzato, fuori luogo o troppo generico.
Tutto questo però non significa che la scelta di un protagonista precluda la possibilità di sviluppare un gioco immersivo. Sono tantissimi i titoli in cui, pur dovendosi immedesimare in un personaggio già costruito, gli sviluppatori riescono comunque a trascinare il giocatore al centro dell’intreccio narrativo. Penso ad esempio ai vari capitoli di The Legend of Zelda, ai tanti giochi indie con protagonisti silenziosi come i recenti Ori e Hollow Knight, all’ultima opera di From Software Sekiro: Shadows Die Twice o anche a Bioshock Infinite. In quest’ultimo, in visuale soggettiva vestiamo i panni dell’imperscrutabile e moralmente dubbio Booker DeWitt.
In soggettiva siamo noi i protagonisti
In effetti i giochi in prima persona rivestono un ruolo particolare nel contesto dell’immersività. L’inquadratura infatti è un’altra scelta stilistica di grande importanza, nello sviluppo di un videogioco. Seppure una grossa fetta di pubblico non ami particolarmente la visuale in soggettiva, è indubbio che questa riesca in modo eccezionale a calare il videogiocatore dentro il mondo di gioco. Di esempi di titoli in prima persona che sono riusciti a raccontare storie memorabili ce ne sarebbero tanti, sia parlando di shooter puri, come ad esempio la nuova trilogia di Wolfenstein, sia parlando di esperienze più ragionate, dove il lato sparatutto passa spesso in secondo piano.
Nell’ambito dei videogiochi in prima persona story driven non si può non citare Half Life 2: un titolo che ha veramente fatto scuola riguardo la credibilità delle interazioni con il mondo di gioco. Sarebbe più corretto forse parlare in generale del genere degli Immersive Sim.
Immersività e Immersive Sim: che relazione hanno?
I videogiochi che appartengono a questa categoria enfatizzano la libertà di scelta e di azione del giocatore e il mutare del mondo che lo circonda in base al suo comportamento. Il nucleo di questi titoli mira a simulare dei sistemi che rispondono a vari approcci diversi, supportando soluzioni creative e stili di gioco che possano andare oltre le idee degli sviluppatori stessi. Pur non rientrando tra gli open world, spesso in questo tipo di videogiochi possiamo muoverci liberamente nell’ambientazione e progredire liberamente tra missioni principali e secondarie, scegliendo da soli come comportarci e affrontandone le conseguenze.
Di questo genere fanno parte molti giochi moderni in prima persona e l’esempio più illustre è probabilmente il già citato Bioshock, in particolare i primi due capitoli.
Il grande obiettivo degli immersive sim è quello di creare un mondo credibile con cui il giocatore possa interagire realisticamente e liberamente, spesso in prima persona. Questo li rende la massima espressione del concetto di immersività in un videogioco. La possibilità di progredire in modi creativi, di sfruttare gli strumenti che il gioco ci mette a disposizione, lo stimolo a sfruttare il pensiero laterale in cerca di soluzioni alternative, dà la sensazione al giocatore di essere davvero il protagonista e di essere all’interno di una ambientazione reale, che reagisce secondo regole intuitive e familiari.
Anche il recente Prey è un perfetto esempio di immersive sim, ma tantissimi titoli moderni rientrano in qualche modo nei canoni del genere, come ad esempio Deus Ex o Dishonored. Secondo molti anche The Elder Scrolls da Oblivion in poi ha fatto sue alcune delle meccaniche di questo genere, e allo stesso modo nel venturo Cyberpunk 2077 si possono chiaramente vedere alcuni elementi indiscutibilmente immersive sim.
Negli ultimi anni una nuova tecnologia ha dato un ulteriore strumento di sviluppo volto ad aumentare l’immersione dei giocatori: la realtà virtuale. Cosa c’è di più immersivo di vivere un’esperienza davvero in soggettiva, del resto? L’ultimo limite tra giocatore e gioco, ossia lo schermo, viene meno. È così che, secondo molti, il recente Resident Evil 7 diventa l’ultima frontiera dell’horror giocato in realtà virtuale, quando ogni confine tra il giocatore e la paura viene eliminato. Purtroppo al momento rimane una tecnologia poco sfruttata: possiamo solo sperare che in futuro le software house scelgano di investire maggiormente in titoli da giocare con il visore. Senza dubbio la realtà virtuale è un ulteriore passo verso un’immersione totale, capace di stimolare sensazioni uniche nei fruitori.
Esempi illustri
Infine voglio citare alcuni esempi di titoli dell’ottava generazione di console ormai al tramonto, che hanno saputo coinvolgere i giocatori in modo particolare. A partire da The Witcher 3, un gioco di ruolo d’azione sviluppato dai ragazzi polacchi di CD Projekt RED, ambientato nel mondo fantasy creato dallo scrittore Andrzej Sapkowski. Il titolo, uscito nel 2015, ha di fatto settato dei nuovi standard qualitativi, in particolare per quanto riguarda il world building e il design delle quest secondarie. La possibilità di perdersi tra le strade affollate del mercato di Novigrad, o tra i boschi di Bianco Frutteto, o veleggiando tra le isole Skellige è un’esperienza unica. Vagando sempre pronti a imbatterci in un castello abbandonato, o in un cadavere con addosso una mappa del tesoro, o magari nelle tracce di un temibile mostro: eventi che danno il via a missioni secondarie capaci di intrattenerci per ore con storie sempre diverse e coinvolgenti. Un mondo, quello di The Witcher 3, vivo e vibrante, che sa catturare e lasciare stregati come pochi altri.
Restando in tema fantasy, un altro titolo capace di coinvolgere in modo unico è senza dubbio l’ultimo The Legend of Zelda: Breath of the Wild, di cui recentemente è stato annunciato un seguito. L’esclusiva Nintendo ha sempre saputo coinvolgere i giocatori, e offrirgli la possibilità di esplorare mondi fantastici nei panni del silenzioso Link, ma in particolare in quest’ultimo capitolo per Switch e Wii U l’immersione è forse l’elemento più importante, grazie al mondo aperto, i tanti villaggi unici e i personaggi carismatici di cui è pieno e alcune scelte di design particolarmente intelligenti, i cui massimi esempi sono il motore fisico e il motore chimico del gioco. Infatti, nei panni di Link, dovremo fare i conti e cercare di utilizzare a nostro vantaggio elementi legati al clima, come vento e pioggia, ma anche combinare frutta, verdure, carni di vario tipo e tanti altri materiali raccolti per creare e cucinare gli oggetti e i cibi più disparati. Tutto in modo molto intuitivo e realistico, per quanto in un mondo fiabesco e fantastico. L’esperienza risulta quindi coinvolgente e stimolante, dandoci sempre nuove idee per sfruttare combinazioni particolari di ingredienti o qualche dispositivo meccanico in modi intelligenti, con risultati a volte inaspettate. Fino a trasformare una zattera in una mongolfiera, sfruttando dei frutti di mare che diventano palloncini…
L’ultimo esempio che voglio citare è il recentissimo Red Dead Redemption 2, gioco d’avventura in terza persona open world, ambientato nel far west e sviluppato da Rockstar Games. L’ultimo lavoro dell’azienda statunitense ha fatto parlare tantissimo di sé per il suo realismo. Sono tanti gli aspetti del gameplay del titolo che simulano la vita di un cowboy, senza però risultare noiosi. Dalla caccia al trasporto delle armi, dalla vita in città al viaggio rapido, con alcune azzeccate scelte di game design questo titolo riesce a convincere il giocatore che ciò che sta vivendo è talmente verosimile da sembrare reale. Inoltre il titolo ha scelto di non sfruttare gli inflazionati punti interrogativi sulla mappa per indicare le side-quest ancora da sbloccare, lasciando così all’utente il piacere della scoperta e dell’esplorazione. Red Dead Redemption 2 trascina i giocatori in un’esperienza che dà sensazioni realistiche e che porta a perdersi nelle sue lande selvagge, tra una sparatoria e un furto, tra una battuta di caccia e una cavalcata verso il tramonto.
E poi The Witcher 3 prima e Red Dead Redemption 2 poi sono stati i primi giochi ad avere una ricrescita veritiera di barba e capelli del protagonista. Riuscite a immaginare qualcosa di più realistico?
Restiamo seri:
Il senso di questa sequela di esempi di generi e di giochi non è raccontare il mercato, né analizzarlo secondo una qualche chiave di lettura. L’obiettivo ultimo è quello di riflettere su quali sono gli aspetti che contraddistinguono e valorizzano il videogioco e ridare orgoglio a tutta la categoria, in espansione, dei videogiocatori. Una realtà troppo spesso mal raccontata e filtrata negativamente nasconde un ventaglio di possibilità di sviluppo e di fruizione enorme, in un mondo che ha tanto potenziale da esprimere.
Non vergogniamoci in quanto appassionati: software house e pubblico si stanno evolvendo, la sensibilità sta crescendo e si può già oggi parlare di videogioco d’autore, così come di videogioco di formazione.