Recensione Kingdom Come: Deliverance

Il Medioevo come non l’avete mai visto.

Bene o male, l’epoca storica nota come Età di Mezzo è ben nota, un po’ per i ricordi scolastici, un po’ perché comunque è una fonte inesauribile da cui attinge il genere fantasy. The Witcher 3, in fondo, che cos’è se non un immenso open world ambientato nel Medioevo, ma condito con draghi, magia e “strighi”? Kingdom Come: Deliverance fa qualcosa di completamente diverso. Il paragone con The Witcher 3 calza: è anche lui un RPG, anche lui open world. Ma cede qualsiasi pretesa fantasty sin dall’inizio.

Kingdom Come: Deliverance è prima di ogni altra cosa un’immensa opera storica, colma di amore per la documentazione di luoghi, ambienti e personaggi realmente esistiti (ve ne parleremo un po’ a proposito della trama). Warhorse Studios è un piccolo team boemo, e lo sviluppo del titolo ha richiesto tempo, sacrifici e cinque anni di accorgimenti per poterlo lanciare contemporaneamente su console e PC. Ci sono tanti piccoli problemi di natura tecnica e del gameplay da risolvere, ma la direzione è quella giusta e il gioco ci ha stregati. Anche senza magia.

La guerra civile

Kingdom Come: Deliverance è narrato completamente in prima persona, con rapidi passaggi in terza durante i filmati e i dialoghi con gli altri personaggi del mondo di gioco. Racconta vicende personali ma anche di storia generale. Noi vestiamo i panni di Henry, figlio di un fabbro che in realtà un tempo era molto più di un fabbro, che nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta si ritrova a dover crescere in modo brusco, a causa della guerra civile boema.

La successione al trono di re Carlo ha infatti portato all’instabilità politica l’intero paese. L’erede Venceslao è passato alla storia come “il pigro”, e per un motivo ben preciso: pare fosse in grado di bere e divertirsi, ma di politica ci capiva poco, e pure dei rapporti tra lo stato e la chiesa romana.

I nobili chiedono allora l’intervento di un altro figlio di Carlo: Sigismondo, e nel paese scoppia la guerra civile. In questo contrasto, il villaggio di Henry viene annientato, i suoi genitori uccisi. Di qui inizia la nostra storia, che ci porterà a viaggiare, esplorare e vivere molti importanti ed interessanti eventi nella Boemia quattrocentesca.

La narrazione di Kingdom Come: Deliverance è solo una delle tante possibilità del titolo. Potremo anche completamente ignorarla per metterci a gironzolare per quello che a conti fatti è un gigantesco open world, dalle dimensioni di quattordici kilometri quadrati. Ad ogni modo la trama è molto interessante, i colpi di scena ben studiati e le vicende di Henry, in generale, lasciano nel giocatore quella buona dose di volontà di scoperta por proseguire.

Dettagli impressionanti

Il rischio con gli open world è un po’ sempre quello che si rivelino pieni di niente. Per fortuna con Kingdom Come: Deliverance è andata bene: l’ampiezza della mappa di gioco non può e non vuole tenere testa a quella di un The Witcher 3 qualsiasi, ma il livello di dettaglio di ogni singolo luogo o ambiente (anche quelli chiusi) è davvero impressionante. Entrando in una qualsiasi casupola di contadini, così come in un monastero o in un castello, si capisce subito che il lavoro di documentazione da parte di Warhorse Studios è stato eccellente. Il mondo di gioco reso su schermo è estremamente fedele al tardo Medioevo, con espliciti riferimenti a quello boemo.

Ha lasciato un po’ l’amaro in bocca il sistema di combattimento scelto a base di combattimenti con le spade (giustamente, nel Medioevo…). L’idea era quello di renderlo altrettanto fedele alla realtà, ma ne è uscito fuori un meccanismo non tanto tecnico quanto ostico, complice anche la non sempre precisa responsività dei comandi scelti. La spada può essere quindi utilizzata per effettuare stoccate e affondi, e ogni affondo può essere direzionato verso una precisa direzione. Pensate un po’ al sistema di For Honor di Ubisoft. Ora rendetelo più complesso. Ecco, questo è Kingdom Come: Deliverance.

Ma il valore del titolo risiede soprattutto nel suo essere un RPG profondo, che nei casi migliori riesce a toccare vette altissime nel suo genere. Pensiamo non solo alla personalizzazione del personaggio, e alle abilità che può apprendere e padroneggiare, ma anche alle sue necessità fisiche che vogliono renderci sempre più presi dal contesto di gioco.

Henry ha bisogno di mangiare, bere e dormire. Se ferito, necessita di cure, specifiche in base al tipo di ferita. Non possiamo neppure salvare quando e come vogliamo, ci occorre uno specifico alcolico chiamato Grappa del Salvatore. E potremmo proseguire ancora, con le cavalcature, i passi del cavallo (trotto, galoppo e via dicendo), il numero di armature e le personalizzazioni presenti, le armi da lancio padroneggiabili. Kingdom Come: Deliverance è un titolo mastodontico.

Comparto tecnico medievale

Il difetto principale di Kingdom Come: Deliverance non è nella scarsa responsività dei comandi che si avverte in più di una situazione, ma nel suo comparto tecnico e soprattutto nell’ottimizzazione su console. Su PlayStation 4 il frame rate a tratti diventa davvero osceno, e graficamente si avverte completamente lo stacco dalle controparti per PC.

Permane anche una certa legnosità dell’intera produzione, con volti dei personaggi a volte poco aderenti alla realtà, compenetrazioni di troppo e casi in cui rimaniamo chiusi all’interno delle abitazioni bloccati da muri invisibili. Un po’ la vecchia storia di Fallout 3: bellissimo quanto grezzo. Kingdom Come: Deliverance è un po’ una via a metà tra The Witcher 3 e Fallout 3.

Commento Finale

Potenzialmente, Kingdom Come: Deliverance può ambire al posto di miglior RPG del 2018 per quanto ci riguarda. Certo, saranno prima necessarie alcune (molte?) patch correttive per rendere l’esperienza di gioco stabile. Serviranno altre ottimizzazioni, soprattutto su console. Ma la ricchezza che ci ha offerto il titolo di Warhorse Studios non la vedevamo da tanto tempo in una produzione di questo tipo. Non fatevi ingannare dall’aspetto di simil The Witcher 3: abbiamo richiamato i CD Project Red per i dovuti confronti, ma l’opera storica di Warhorse Studios ha un carisma tutto suo. Quello di un titolo Europeo, che abbandona il fantasy per concedersi il lusso del realismo storico.



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