Recensione La casa di carta: Corea

Tramessa originariamente dall’emittente spagnola Antena 3 e solo successivamente adottata da Netflix, La casa di carta (o La Casa De Papel) è stata uno dei prodotti seriali più rilevanti degli ultimi anni.

Álex Pina, famoso in patria per Los Serrano e Vis a vis, aveva sfruttato una formula tanto semplice quanto vincente: il fascino dell’heist movie. Un fascino che passa dalla mente di un individuo, noto con lo pseudonimo di Professore, tanto geniale da aver pianificato in ogni minimo dettaglio ogni possibile variabile di un piano ambizioso e folle: rapinare la zecca di Stato. Con lui, una banda di individui di rosso vestiti con personalità peculiari, ognuno guidato da proprie motivazioni o ambizioni. Contro di loro, tutte le forze armate che tenteranno di rovinare i loro piani, oltrepassando più volte la linea sottile della legalità. Una serie nata per intrattenere, con una scrittura fin troppo spesso sopra le righe e con ampie contaminazioni da soap opera (soprattutto nelle relazioni dei personaggi, a volte palesemente esagerate e spropositate), ma che ha avuto la fortuna di contare su un cast divenuto presto iconico per i fan nonché su un immaginario diventato istantaneamente cult grazie alle divise rosse, all’anonimato della banda celato da nomi di città, alle maschere di Salvador Dalì. Una serie imperfetta ma vista da tutti, autentica definizione del guilty pleasure per eccellenza. Per la felicità di Netflix, che aveva sposato il progetto estendendone la vita ben oltre la prima stagione. Lo stesso Álex Pina ne aveva beneficiato, con l’arrivo di altre sue produzioni sulla piattaforma di streaming, come White Lines e Sky Rojo.

Tuttavia, La casa di carta ha rappresentato un brand troppo importante e redditizio per essere abbandonato dopo la sua conclusione nel dicembre 2021. Pertanto, Netflix ha colto la palla al balzo per promuovere altri due progetti: uno spin-off sul personaggio di Berlino, in arrivo nel 2023, ed un remake sudcoreano, arrivato il 24 giugno 2022 con le prime 6 puntate.

La maschera Yangban assume un preciso messaggio.

Joint Economic Area

Basata sul soggetto di Pina, La casa di carta: Corea è diretta da Kim Hong-sun e scritta da Ryu Yong-jae, Kim Hwan-chae e Choe Sung-jun. Se il titolo italiano potrebbe suggerire qualche perplessità sulla validità del prodotto o sull’impegno riversato in esso, tuttavia è il sottotitolo del titolo internazionale della produzione (Money Heist: Corea – Joint Economic Area) che lascia trasparire ben altre attenzioni.

La Joint Economic Area è infatti il presupposto narrativo della serie. In un futuro prossimo, la Corea del Sud e la Corea del Nord raggiungono una pace per creare un’unione economica congiunta adottando una valuta comune. Nelle intenzioni, tale scelta avrebbe dovuto inaugurare una nuova era di benessere economico e sociale per i cittadini della nuova Corea unita. Sfortunatamente, la realtà dei fatti ha prodotto risultati molto diversi, permettendo ai ricchi di prosperare ulteriormente accentuando ancora di più il divario con le fasce meno abbienti della popolazione, molto spesso relegate ai margini della società e costrette ai lavori più estenuanti per sopravvivere. In un contesto sociale governato dalla iniquità e da promesse non mantenute, un brillante individuo, soprannominato Professore, raduna un gruppo di ladri per realizzare una rapina da oltre 4.000 miliardi di won alla nuova zecca coreana.

Yoo Ji-tae interpreta un Professore caratterialmente simile a quello spagnolo, ma con un background ben diverso.

Se la serie originale spagnola muoveva sul simile presupposto della rapina come atto rivoluzionario nei confronti di una società governata da incoerenze ed ingiustizie salvo poi cedere il passo presto di fronte a motivazioni squisitamente personali (anche al costo di qualche retcon dei background dei personaggi nelle stagioni successive), il remake sudcoreano pone le sue basi molto più in profondità in una feroce critica sociopolitica.

Come da tradizioni per ogni prodotto sudcoreano, anche La casa di carta: Corea fa della rappresentazione critica della società classista e della realtà politica ed economica un punto di riferimento ineludibile della narrazione e della sceneggiatura, nonché dei personaggi stessi. Ogni dialogo, ogni flashback ed ogni digressione nascondono una critica nei confronti dell’equilibrio sociale, uno sguardo verso un problema politico o una riflessione contro la realtà classista della Corea.

Ne è esempio lampante la stessa scelta della maschera indossata dai rapinatori. Se La Casa de Papel omaggiava con Salvador Dalì la storia e l’arte della Spagna, La casa di carta: Corea fa sfoggio della maschera Yangban. Dal 1392 al 1910, gli Yangban rappresentavano la classe sociale più importante durante la dinastia Joseon: essi erano funzionari governativi, una élite seconda solo alla famiglia reale, dedita alla vita di corte ricca ed acculturata. Complice una grande perdita di prestigio nei primi del ‘900, la classe degli Yangban è divenuta nel tempo una vera e propria maschera teatrale. Inizialmente puntava ad una critica della classe nobile, considerata corrotta ed incompetente; successivamente è arrivata ad assolvere la funzione di denuncia delle diseguaglianze presenti nella società.

Uguali ma diversi

La casa di carta: Corea non tradisce la sua natura di remake, proponendo dunque una storia molto simile a quanto già visto nell’originale serie spagnola. Troveremo dunque una rapina con mille imprevisti, una banda con gli stessi soprannomi e perfino una versione sudcoreana di quell’Arturito che tanto abbiamo odiato negli anni. Tutto molto simile… ma anche molto diverso.

Nonostante gli eventi (perlomeno nelle prime sei puntate finora disponibili) ricalchino negli eventi principali quanto visto alla zecca di Spagna, a cambiare è non solo il background complessivo, ma anche una serie di piccole deviazioni lungo il percorso con eventi che hanno luogo… ma non esattamente nelle stesse modalità ricordate. E soprattutto, non con le medesime implicazioni.

Anche qui troviamo personaggi apparentemente simili alla produzione originale: un Professore intelligente e calcolatore, un Berlino affascinante e spietato, una Tokyo determinata e senza paura, un Denver allegro e dal cuore buono… ma tutti, dopo un primo impatto, mostrano una caratterizzazione più precisa e puntuale. Tutti i personaggi divergono dalle versioni spagnole per un background legato a doppio filo alla realtà sociale che li circonda, che li spinge a muoversi con una determinazione, una solidità ed una coerenza a tratti sconosciute alla Casa de Papel.

Kim Ji-hun nei panni di Denver è una delle sorprese della serie.

Al di là del fascino legato ad attori carismatici come Pedro Alonso ed Úrsula Corberó, è facile ricordare come la serie originale soffrisse della sindrome da soap opera, con personaggi a tratti così instabili nelle loro decisioni da farli apparire completamente incoerenti se non apertamente odiosi (un nome su tutti, Tokyo). Tutto questo non accade nel remake sudcoreano: il cast, selezionato con estrema intelligenza tra attori talentuosi e volti noti anche ad un pubblico occidentale (Park Hae-soo di Squid Game, di cui è stato annunciato un seguito, o Jeon Jong-seo vista in Burning), offre interpretazioni senza sbavature grazie ad un impianto narrativo solido ed equilibrato.

K-drama ma non troppo

Al momento dell’annuncio, la serie è stata subito oggetto di pregiudizi da parte del pubblico, timoroso che si trattasse di una furbesca manovra commerciale senza una propria identità (dimenticando forse il precedente di The Good Doctor, remake statunitense di una serie sudcoreana pluripremiata). Oltre a questo, l’altro timore è che la serie potesse subire eccessivamente l’anima da k-drama delle produzione sudcoreane, in contrasto con lo spirito della occidentale Casa de Papel. Non solo La casa di carta: Corea dimostra di avere una propria identità ed una propria dignità come prodotto seriale, ma prende anche alcune distanze dal genere del k-drama.

Ovviamente, alcune caratteristiche rimangono come la durata media degli episodi (più lunga dello standard occidentale) ma l’appoggio di Netflix ha permesso uno sviluppo senza la collaborazione di network locali. In questo modo, la serie ha potuto eludere non solo alcuni stilemi (relativi alle dinamiche dei personaggi o ad una ricca alternanza di registro e generi), ma altresì regole che censurano alcuni contenuti vietati ai minori.

Persiste anche la componete romance della serie originale, ma viene qui calata in un contesto maggiormente serioso, senza indugiare eccessivamente in dialoghi e situazioni proprie di altri generi.

Una libertà che porta ad una produzione intelligente ed adulta, graziata da una regia ed un montaggio non eccelsi ma puliti, nonché da una fotografia funzionalmente fredda per generare contrasti cromatici interessanti.

Jeon Jong-seo (nei panni di Tokyo, a destra) e Lee Hyun-woo (nei panni di Rio, a sinistra).

Non tutto oro quello che luccica

Nonostante tutto funzioni molto bene, bisogna segnalare che non si tratta di una serie perfetta, come non lo era d’altronde neanche l’originale.

Ancora una volta, la trama non offre una grande originalità e si rifugia nei cliché degli heist movie senza proporre grandi novità. Una mancanza, questa, che si sente ancor di più trattandosi di un remake di una serie che già nasceva senza una particolare freschezza.

Nel corso delle sei puntate disponibili, nonostante una durata media superiore alle puntate della serie spagnola, poco spazio è dedicato ad alcuni personaggi (ad esempio, Nairobi) o ad alcune relazioni (tutta da chiarire infatti è la dinamica del rapporto tra il Professore e Berlino): mancando tuttavia ulteriori sei puntate per la conclusione delle vicende, c’è da attendersi che possano recuperare il terreno perduto, magari divergendo dalla serie originale.

Commento finale

La casa di carta: Corea è la dimostrazione lampante che anche i remake possono avere una dignità, distinguendosi per intelligenza e consapevolezza. Grazie ad una narrativa solida, ad un pregevole cast e ad una ricca critica socioeconomica a far da sfondo, la serie rappresenta un ottimo prodotto per i fan della serie di Álex Pina, per gli amanti delle produzioni sudcoreane e degli heist movie.

7.5

La casa di carta: Corea


La casa di carta: Corea è la dimostrazione lampante che anche i remake possono avere una dignità, distinguendosi per intelligenza e consapevolezza. Grazie ad una narrativa solida, ad un pregevole cast e ad una ricca critica socioeconomica a far da sfondo, la serie rappresenta un ottimo prodotto per i fan della serie di Álex Pina, per gli amanti delle produzioni sudcoreane e degli heist movie.

PRO

Remake intelligente che veicola una profonda critica socioeconomica | Cast ben assortito tra giovani talenti e volti noti al pubblico occidentale | Diverge dai classici k-drama |

CONTRO

Fondamentalmente ricalca gli eventi dell'originale | Finora poco spazio per alcuni personaggi | Se non piace il genere, difficilmente piacerà |
Danilo Di Gennaro
Danilo Di Gennaro
Viaggiatore nel tempo, utilizzatore della Forza, ex SOLDIER di 1° classe. Accanto ad una passione incrollabile verso il media videoludico da oltre 30 anni, nel tempo mi appassiono quadrimensionalmente a tutto ciò che proviene dal Giappone, nonché a cinema, serie tv, supereroi e molto altro. Allons-y.

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