Un Viaggio tra Arte e Poesia
Prima di cominciare, una doverosa premessa, Journey non è un titolo a cui si può dare un punteggio, nemmeno un gioco che si può paragonare ad altri videogiochi: Journey è un viaggio, qualcosa di unico, diverso, un esperimento che merita di essere affrontato e che fa capire una volta di più, come l’industria videoludica sieda a pieno titolo tra i media capaci di fare arte, attraverso lampi di genio che, come questo, sono in grado di squarciare il cielo buio di produzioni sempre troppo uguali l’una all’altra, dando al contempo una scossa a quella consuetudine che intorpidisce gli animi. Scordatevi quindi punteggi, considerazioni tecniche su aliasing e texture, e non ce ne vogliate, ma questa volta si parla di emozioni.
Come potete notare, questo articolo a differenza di altri è scritto in prima persona, perchè in come detto Journey è un viaggio, un’esperienza, una sensazione da vivere in prima persona, dove astrazioni concettuali sono superflue pertanto sarò io a descrivervi ciò che mi ha trasmesso questo viaggio.
Un videogioco può essere poesia? Può essere arte? L’arte è un qualcosa che va oltre la competenza tecnica e stilistica, non è solo espressione di creatività, nè tantomeno qualcosa da poter qualificare come bello nel senso oggettivo del termine, l’arte è un’insieme di sensazioni che rendono unico il prodotto dell’ingegno umano, ed è difficile trovare al giorno d’oggi tra il mercantilismo dei media di intrattenimento, qualcosa di cosi speciale.
Anche un videogioco mi dicevano può essere poesia se, quando lo “viviamo”, ci trasmette un’emozione.
Ho sempre creduto che tutto ciò non fosse possibile, fino a quando non ho preso il controllo di un piccolo umanoide avvolto da un tessuto rosso, abbandonato nel deserto, con una sola montagna illuminata come unico punto di riferimento.
All’inizio non mi restava altro che camminare per questo paesaggio desolato, potendo rilasciare una specie di simbolo dal significato poco chiaro. Ma dopo un lungo cammino, mi sono reso conto che non ero solo in questo viaggio, nel deserto c’erano rovine, tessuti rossi con cui potevo interagire. Il sistema di controllo è semplice e intuitivo: il piccolo umanoide si è presto dimostrato in grado di sfruttare l’energia dei tessuti sparsi per la mappa, che gli permettono di fluttuare nell’aria. I controlli e il gameplay in Journey sono un semplice contorno, non sono il fulcro di questo viaggio, ogni azione che si compie ci fa avvicinare sempre più all’obiettivo finale, ogni passo è una piccola scoperta e poco importa se sono presenti simboli segreti nelle mappe, o se gli enigmi sono troppo facili. L’unica cosa importante è il mondo che prende vita al passaggio del piccolo umanoide, che si riempe di stoffa, che riesce a regalare scorci lirici passo dopo passo.
Mai sono riuscito a vedere luoghi cosi evocativi in un videogame, basta un cambio di tonalità, di luce, di contrasto e tutto l’ambiente sembra nuovo, magico.
Anche la splendida colonna sonora contribuisce, con le immagini che scorrono veloci davanti ai nostri occhi, a farci volare sulle ali della immaginazione.
L’unico neo di questa opera può essere la durata di questo viaggio di soli tre ore, ma non valutatela negativamente, nessuno vi costringe a terminare il viaggio in tre ore, potrete diluire il vostro percorso in più tempo, andando alla ricerca di tutto ciò che Journey può offrirvi e non dimenticate non siete soli in questo viaggio…