Ritratto del James Bond di Daniel Craig

L’uscita di No Time to Die, ultimo film con Daniel Craig nei panni dell’agente 007, è purtroppo stata rimandata, da aprile a novembre. Alla luce di questo capitolo conclusivo della serie, che arriverà più tardi del previsto, sembra il caso di tirare le somme sul ciclo che lo ha visto protagonista. Un po’ per il gusto di farlo e un po’ per ingannare la lunga attesa che ci aspetta prima di poter assistere a questo spettacolo conclusivo.

Al di là della cronica difficoltà della produzione nel trovare un sostituto, bisogna forse approfondire l’impatto che ha avuto l’attore britannico sul personaggio di Ian Fleming. Si può sicuramente parlare dei film che lo hanno visto protagonista come di un ciclo di rifondazione di James Bond, e di riadattamento dell’agente segreto a una dimensione più moderna.

Da Pierce Brosnan a Daniel Craig

All’inizio del nuovo millennio, con l’ultima apparizione di Pierce Brosnan nei panni di 007 si chiudeva la sua serie di quattro film. L’attore aveva restituito un personaggio estremamente fedele alla versione originale, così fortemente legata all’interpretazione di Sean Connery, che nell’immaginario comune rappresenta il primo James Bond, sebbene prima ancora ci sia stato Barry Nelson. Con Brosnan i fan storici avevano trovato qualcuno che più di chiunque altro somigliava all’originale. Per fascino, per fattezze, per modo di declinare lo humour tipico di 007. Va anche detto che tutti e quattro i film che a cavallo tra gli anni ’90 e i primi del 2000 lo hanno visto protagonista seguivano gli stilemi classici dei film di spionaggio. Allo stesso tempo restavano anche fortemente ancorati a tutto ciò che James Bond è sempre stato.

Con il passaggio di testimone la produzione ha fatto una scelta coraggiosa e ha voluto distaccarsi parzialmente dall’immaginario della serie. Lo ha fatto prima di tutto scegliendo un interprete profondamente diverso. Daniel Craig è sì inglese come lo erano anche i precedenti James Bond, ma esprime una mascolinità del tutto differente. L’attore di Chester è un macho in piena regola, che da un lato sfoggia tutto il suo concentrato di muscoli e pelle liscia, dall’altro mostra un volto più sottile e affilato, una carnagione chiara e uno sguardo di ghiaccio. Sia per fisico che per tratti del volto Daniel Craig si allontana non poco dall’immagine classica di James Bond.

Sebbene questa scelta abbia fatto storcere il naso a molti appassionati storici, 15 anni dopo possiamo dire tranquillamente che sia stata azzeccata e abbia restituito una versione del personaggio adatta a un pubblico più giovane, forse salvando la serie da un lento declino.

Un James Bond diverso

Bisogna dire però che non tutti i meriti vanno dati a Daniel Craig. In primis va dato atto alla produzione per la scelta di cambiare così fortemente i canoni di 007. Ma va riconosciuta anche la volontà di ripartire da capo. Tutto il primo film in particolare, Casino Royale, serve a costruire il nuovo James Bond su cui poi si fonderanno i capitoli successivi. Ed è un uomo diverso, rispetto al passato. Più umano, più debole, più ingenuo. Sbruffone e ironico come sempre, certo, ma anche più reale e tangibile che in passato. Non più un robot, una macchina senza sentimenti.

Già la scena d’apertura di Casino Royale è un manifesto del nuovo 007, che a cavallo del nuovo millennio cambia pelle. La sapiente alternanza in quella scena in bianco e nero tra dialogo e azione sottolinea una violenza nuova per la serie, non contemplata nei precedenti film quanto nei libri. Vediamo l’agente combattere brutalmente a mani nude in un bagno pubblico, demolendolo sostanzialmente. Le smorfie di dolore e di fatica per sopravvivere a quella lotta mortale sono il simbolo di un nuovo James Bond e di un nuovo cinema d’azione. La licenza di uccidere bisogna guadagnarsela…

A corredo di quest’apertura così forte, per la prima volta la celebre inquadratura dalla canna della pistola viene contestualizzata, a tracciare ulteriormente il distacco col passato. Un tocco di stile non da poco.

Casino Royale Opening

Analogamente sono cambiate anche le Bond girl che lo hanno affiancato, in particolare proprio quella Eva Green che interpreta Vesper Lynd in Casino Royale. Non più semplici oggetti estetici del piacere, buone o cattive ed estremamente piatte. In questo ciclo di film abbiamo potuto ammirare personaggi femminili molto più profondi, più complessi che in passato.

In realtà quest’ultimo ciclo su James Bond ha effettivamente scelto di trattare in modo diverso le comprimarie femminili. Le uniche due vere Bond Girl vanno ben oltre l’affiancare l’agente in una pericolosa avventura. In questi due personaggi, e nella relazione con il protagonista, c’è molto più di un rapporto utilitario e carnale. In entrambi i casi nasce non solo un sentimento, ma tutte e due arrivano a lasciare un segno indelebile in James Bond, che si protrae ben oltre i limiti di inizio e fine del singolo film.

Una particolarità del primo 007 con Daniel Craig è la relativa poca azione. Nonostante la scena iniziale di cui abbiamo parlato prima, e  l’inseguimento sui tetti che cavalca la moda del parkour esplosa proprio in quegli anni, questo primo capitolo della saga è molto cerebrale. Il film si incentra infatti più su un lungo duello a poker, fatto di bluff e giochi mentali, che sull’azione vera e propria. In effetti non capita spesso in uno 007 che lo scontro con l’antagonista di turno si svolga a un tavolo da gioco.

Bisogna anche dare i giusti meriti a un cattivo di spessore, interpretato da un Mads Mikkelsen in ottima forma che riesce a restituire un freddo e spietato banchiere della guerra, sapientemente pavido nei momenti opportuni. Con l’aggiunta di quelle lacrime di sangue, un tocco di classe che rende il personaggio inquietante e misterioso.

Inoltre, alcune scelte registiche hanno voluto appositamente capovolgere le dinamiche classiche della serie. Basti pensare a Daniel Craig che in più di una scena esce dall’acqua nel primo film, a come la telecamera indugi su di lui, in modo molto simile a quanto visto con Halle Berry in La morte può attendere, solo pochi anni prima, a sua volta citazione della celebre scena con Ursula Andress in Licenza di Uccidere. Un totale ribaltamento del rapporto estetico uomo-donna, che passa anche dalla presenza in scena dei personaggi.

Daniel Craig Hallee Berry

All’ombra di Vesper

Il secondo film, Quantum of Solace, è sicuramente il più debole dell’epoca Craig e lo è soprattutto perché di fatto è un sequel diretto. Lo è talmente tanto da risultare in più punti difficile da seguire se non si è visto il precedente. Ma non è l’unico dei problemi che lo affliggono.

Il film manca senza dubbio di un antagonista di spessore. Bisogna dire che non era semplice raggiungere le vette del Mads Mikkelsen in Casino Royale. Di lui e soprattutto del suo personaggio, così calcolatore e inquietante. Senza nulla togliere alla prestazione attoriale di Mathieu Amalric, il suo Dominic Greeen non riesce Quantum of Solacea incidere e risulta infine un cattivo dimenticabile.

L’altro problema di Quantum of Solace è legato alla co-protagonista femminile. Certo era difficile rimpiazzare Eva Green, ma la bellissima Olga Kurylenko non riesce minimamente a prendersi la scena come dovrebbe, nonostante il suo sguardo di ghiaccio. E nonostante sia uno dei rari casi di Bond girl che non finisce a letto con l’agente segreto britannico, particolarità che comunque aggiunge spessore al suo personaggio.

Prima di passare oltre, si può notare anche un deciso cambiamento in favore delle scene d’azione nel secondo film del ciclo di Daniel Craig. Quasi in contrapposizione alla verbosità di Casino Royale, qui si è virato fortemente verso la spettacolarità delle scene. Forse fino al punto di stuccare lo spettatore…

Cambiamenti

È con Skyfall che arriva il definitivo cambio di direzione e, in un certo senso, salto di qualità. Il terzo film con Daniel Craig nei panni di 007 è una rivoluzione per la serie. Lo è nella pratica, grazie all’arrivo di Sam Mendes alla regia, la cui mano si vede immediatamente, già dai primi fotogrammi, ma anche nella filosofia alla base del personaggio.

Al contempo c’è anche un cambio radicale nel cast, che vede il ritorno di Moneypenny con un nuovo volto, assente da La morte può attendere, ultimo film con Pierce Brosnan. Judi Dench MCome pure il cambio della guardia per quanto riguarda il personaggio di Q, che, dopo la breve parentesi di John Cleese, saluta lo storico interprete Desmond Llewelyn, purtroppo deceduto dopo cinquant’anni di onorato servizio. E infine anche con l’ormai storica Judi Dench, che per ben sette film di 007 aveva interpretato il personaggio di M, e che proprio in Skyfall passa il testimone a Ralph Fiennes. In questo caso il cambio di interprete è ben contestualizzato, tanto da essere elemento chiave del plot narrativo.

Ma ancora, Skyfall può vantare un attore premio oscar nei panni dell’antagonista, Javier Bardem, e l’intro musicale di Adele, nel 2012 una delle cantanti più apprezzate al mondo. Infine bisogna citare anche l’assenza di una vera Bond girl, evento molto raro.

Tuttavia il terzo film con Daniel Craig rappresenta un cambio radicale anche concettuale. Un lungometraggio che pone 007 di fronte all’avvento del digitale, mettendo in discussione l’utilità stessa dello spionaggio vecchio stile.

Interessante il fatto che l’inseguimento iniziale a Istanbul sembri aver ispirato fortemente l’inseguimento in Madagascar di Uncharted 4, a sottolineare un mutuo scambio tra cinema e videogiochi.

Lo spionaggio che si adatta alla modernità

Skyfall è un film che gioca molto sul concetto di “troppo vecchio”. Lo fa in riferimento ai suoi personaggi chiave, Bond e M, ma è un chiaro riferimento alla lunga vita della fortunata serie. Per molti forse troppo lunga. Il film vuole rimarcare, giocando sul filo della quarta parete, come il personaggio possa ancora dire molto, anche grazie alla sua reinterpretazione moderna, capace di attirare nuove schiere di giovani fan.

I riferimenti ai precedenti film di James Bond sono innumerevoli, più o meno facili da cogliere, mai troppo nascosti. E così nel discorso che continua a battere sull’ineluttabilità del tempo e il nuovo che rimpiazza il vecchio, fa sorridere il fan service di battute come “solo per i suoi occhi” o “bersaglio mobile”, in uno scambio tra Bond e Moneypenny.

Un’altra cosa interessante è che paradossalmente, in un trucco che inganna gli Javier Bardem Skyfallspettatori più distratti, il James Bond che più di tutti ha ringiovanito il personaggio si mostra come un tradizionalista, rispetto ai tempi che avanzano, facendone a tratti un vanto.

Skyfall gioca inoltre continuamente con il concetto di ritorno inteso come resurrezione. Lo fa in riferimento al suo protagonista e anche al suo antagonista. Un Javier Bardem che in effetti risulta un’opaca rivisitazione del suo Anton Chigurh in “Non è un paese per vecchi” misto al Joker di Nolan.

Le origini e la fine

Il terzo film del Bond di Craig arriva perfino a reinventare e svelare parte del passato di 007, delle sue origini. La sua casa natale, la sua provenienza, i nomi dei genitori e un evento traumatico del passato che lo ha reso orfano. Ancora una volta una mossa che toglie sì un velo di mistero all’evanescente agente, ma lo rende più umano agli occhi di un pubblico moderno.

Il finale è un’insolita situazione di difesa di un “quartier generale” che vede Bond in trappola, spalle al muro, e ancora una serie di citazioni. Alla serie stessa, ovviamente, ma anche agli elicotteri di Apocalypse Now, accompagnati però da un John Lee Hooker che sa tanto di Blues Brothers. Il tutto a preludio di un epico scontro finale che ricorda quasi un cinecomic, o il finale di Django Unchained, film dello stesso anno.

Un capitolo estremo nella sua spettacolarità, al punto da risultare forse stancante, nei suoi eccessi. Eppure fondamentale nell’evoluzione di questo James Bond tanto quanto Casino Royale. Non solo per i tanti cambiamenti che porta con sé, ma anche per il diverso tono rispetto ai precedenti due episodi, verso una maturità che in un certo senso trova la sua dimensione nell’ultimo capitolo, Spectre.

Continuità

Torna Sam Mendes alla regia e, anche qui, lo si nota già alla prima scena: un lunghissimo piano sequenza a Città del Messico nel Dia de los muertos che segue Bond e una sua accompagnatrice travestiti per l’occasione. L’apertura è magistrale, certo, ma bisogna dire che gli anni sul volto di Daniel Craig si cominciano a notare, purtroppo.

Già dalla sigla di Spectre si intuisce come il film voglia essere un mosaico di tutto ciò che questa saga è stata. Ancora una volta viene rimarcato il filo comune che unisce questi quattro film, e il ruolo di quest’ultimo come chiusura. Una chiusura che di fatto non lo è, dato che presto assisteremo a un nuovo capitolo di Daniel Craig nei panni di 007.

Per molti aspetti Spectre riparte esattamente da Skyfall. Torna il tema del nuovo che avanza contro il vecchio che resiste e non si può mettere da parte. Qui il tema si amplia Léa Seydouxulteriormente, con un continuo confronto generazionale. Prima tra Bond e Q e parallelamente tra M (Ralph Fiennes) e C (Andrew Scott). Poi tra le rughe sul volto di Daniel Craig e il viso affilato di Léa Seydoux, quasi 20 anni più giovane. La differenza non è solo tra gli attori, ma anche tra i personaggi interpretati.

La dottoressa Madeleine Swan rappresenta un certo tipo di bond girl, e lo fa alla perfezione. Il fiore delicato, l’aquilone che volteggia in un uragano, pronto a lasciarsi tentare e proteggere da 007. Ma allo stesso tempo anche una donna dalle risorse nascoste e sorprendenti, capace di stupire in più occasioni. Capace soprattutto di scuotere James Bond dalle fondamenta e ribaltare le sue certezze.

Il burattinaio, un fratello perduto

In Spectre tornano anche i fantasmi del passato, come in Skyfall. La storica M (Judi Dench), ovviamente, e la missione postuma affidata a Bond, ma anche il passato familiare del protagonista che verrà ulteriormente svelato. Un padre e un fratello adottivi, perduti e ritrovati. Un uomo nell’ombra, creduto morto, che per anni ha nutrito rCristoph Waltz Spectreancore e invidia e ha mosso le fila per ostacolare in ogni modo possibile l’orfano che gli ha rubato l’affetto paterno.

Cristoph Waltz, fresco di due premi oscar come miglior attore non protagonista, viene qui impiegato in un personaggio forse troppo piatto, il cattivo per antonomasia. Forse per questo l’attore non riesce a offrire la performance che ci si aspettava, ma l’obiettivo di Spectre è anche quello di rievocare un certo tipo di antagonismo di bondiana memoria. La grande organizzazione segreta, la piovra che ha insinuato i suoi tentacoli ovunque, con a capo un uomo freddo e spietato, in qualche modo collegato all’eroe per un’epico scontro che sfocia su un piano personale.

A corredo di ciò troviamo altri due archetipi classici della narrazione legata al personaggio, interpretati qui da Monica Bellucci e Dave Bautista. Da un lato l’avvenente vedova che si lascia tentare da Bond, dall’altro l’esecutore nerboruto, braccio armato di una mente analitica e distante.

Spectre torna inoltre a recuperare il personaggio del signor White, interpretato da Jesper Christensen, adesso sotto lo pseudonimo di Re Pallido. Ancora una volta viene sottolineata una continuità iniziata in Casino Royale e arrivata fino a qui, attraverso un uomo che in realtà ha sempre rappresentato un’organizzazione capillare.

La tecnologia e le scelte

E ancora si torna a discutere di cosa è il futuro e cosa non lo è. La tecnologia, la sorveglianza, il digitale che avanza e lascia indietro ciò che è obsoleto. Ma James Bond è davvero obsoleto? La risposta è scontata, ma è il modo in cui ci si arriva che è importante. E il fatto che 007 sia del tutto da solo in questa ultima missione, abbandonato da M e i suoi sottoposti per evitare che proprio quella sorveglianza conosca i suoi movimenti, sottolinea quanto invece gli agenti doppio 0, e Bond in particolare, siano ancora fondamentali. Allo spionaggio, certo, ma soprattutto a noi appassionati.

Dall’altro lato, nel confronto tra Bond e la bellissima Madeleine viene fuori anche la tematica della scelta. Per questo 007, la versione di Daniel Craig, pare non essercene mai stata una, così lui sostiene almeno. La dottoressa Swan invece sceglie di sparare per salvare James Bond dal bruto che stava per buttarlo giù da un treno, contravvenendo alla sua volontà iniziale di restarne fuori.

L’aquilone nella bufera sembra in realtà essere molto a suo agio, e riesce a lasciare un segno nell’anima dello sfuggente agente, dandogli un’altra possibilità. Quel cuore spezzato da Vesper Lynd tempo addietro e ormai raggrinzito può forse tornare a scegliere (di amare) grazie a una giovane e sicura dottoressa?

Chiudere il cerchio

Spectre è in fondo il più classico 007 del ciclo di Daniel Craig. Lo è nella scelta dell’antagonista, interpretato da un piuttosto spento Christoph Waltz, ma anche nei ritmi, nei climax, nei colpi di scena, nei cliché. Forse troppo classico in una saga che così tanto ha innovato, nella pratica come nelle intenzioni. Eppure nella sua freddezza si distingue per apatica perfezione, nonostante i difetti. Senza dubbio chiude il cerchio, con una scelta finale chiara da parte del protagonista, redento da sé stesso infine. Se non fosse che questo cerchio andrà riaperto, con il film in uscita.

Uno dei più grandi meriti del James Bond di Daniel Craig è quello di aver creato una saga all’interno della serie, che segue un filone continuo dall’inizio alla fine, almeno fino ad ora. E in questo ciclo interno i film di James Bond sono riusciti a toccare e reinterpretare quasi l’intera mitologia del personaggio.

La saga di Daniel Craig ci ha insomma mostrato svariati volti di 007. Sì e passati da episodi più moderni ad altri più classici, da più cerebrali a più movimentati. Il tutto soddisfacendo, più o meno, tutti i gusti. A No Time to Die, titolo che è contemporaneamente una contro-citazione al compianto Rutger Hauer e un ossimoro sull’imminente destino di Daniel Craig come 007, spetta l’arduo compito di dare una degna conclusione a questo lungo ciclo, che sembrava averne già trovata una in Spectre. La storia andrà riaperta, probabilmente contro quanto previsto dallo script del film del 2015, e poi richiusa altrettanto degnamente.

Inoltre l’impegnativa missione di questo ultimo 007 è anche quella di avere dentro di sé l’anima di tutti e quattro i precedenti. Dovrà essere un sunto, una summa di tutto ciò che il Bond di Daniel Craig è riuscito ad essere e rappresenta per la cinematografia d’azione. Un film che non vediamo l’ora di vedere, sperando possa essere all’altezza delle vertiginose aspettative.

Daniel Craig 007

Andrea Scibetta
Andrea Scibetta
Gioco e scrivo, guardo film e serie tv, leggo libri e fumetti, disegno. Nel tempo libero faccio lo sviluppatore informatico

Rispondi

Ultimi Articoli