Recensione Death Stranding 2: On the Beach: Ancora una volta Kojima riscrive le regole del gaming

C’è qualcosa in Death Stranding che, fin dal primo passo, ti costringe a rallentare. Non solo per il peso che porti sulle spalle, o per le frane improvvise che piegano il terreno. È una lentezza diversa. Una che ha il ritmo del respiro, del silenzio, dell’attesa. On the Beach non fa eccezione. Anzi, ne è la sublimazione.

A cinque anni dal debutto (qui la nostra recensione della Director’s Cut del 2021) della sua opera più divisiva e personale, Hideo Kojima torna con un sequel che osa essere ancora più radicale, ancora più intimo, ancora più necessario. Perché Death Stranding 2 non è un semplice “numero due”. È una dichiarazione. Un manifesto. Un’esperienza che rifiuta ogni compromesso, che ti guarda dritto negli occhi e ti chiede: “Quanto sei disposto a sentire?”

Questa non è un’avventura nel senso classico. Non ci sono salti nel vuoto o boss fight da esibire in uno speedrun. C’è piuttosto una linea tracciata nella sabbia – a volte rotta, spezzata, lavata via – che chiede di essere seguita con attenzione. Con rispetto. E soprattutto, con umanità. Perché On the Beach è, prima di tutto, una storia di legami. Tra persone, tra mondi, tra vivi e morti.

Questa è la recensione di un’esperienza difficile da incasellare. Un’opera che sfida la definizione stessa di videogioco, ma che proprio per questo riesce a parlare con forza, con verità. Ed è per questo che oggi, controller alla mano, siamo tornati a seguire le orme di Sam. Ancora una volta. Ancora una spiaggia.


Versione testata : PlayStation 5


Trama e atmosfera: un’odissea post-umana tra connessioni e fantasmi del passato

C’è un mondo oltre la spiaggia. Un mondo che ci somiglia, ma è fatto di cicatrici, risonanze e promesse infrante. In Death Stranding 2: On the Beach, Kojima torna a parlarci dal futuro, ma lo fa con lo sguardo di chi ha ancora paura del presente. Dopo il messaggio iniziale del primo capitolo – un viaggio fisico ed emotivo per ricucire l’America frammentata – questa volta l’autore sposta il baricentro del racconto verso un piano ancora più intimo e disilluso, dove l’oceano è metafora del tempo, la spiaggia è luogo di passaggio e il ritorno alla vita è un’impresa da pagare con il sangue e la memoria.

La narrazione si apre in modo criptico, ma fortemente evocativo: Sam Porter Bridges, ormai segnato dal primo viaggio, è un uomo diverso. Non solo nei gesti, più lenti e riflessivi, ma nella direzione che sceglie di seguire. Non è più un semplice corriere, ma un reduce. Uno che porta il peso di ciò che ha unito, ma anche di quello che ha perso. L’incipit, con il nuovo rifugio nel deserto rosso e le apparizioni di Lou – o meglio, della sua nuova identità – getta immediatamente il giocatore in un vortice di mistero e malinconia, dove ogni incontro ha il sapore di un déjà-vu e ogni parola sembra scolpita sulla sabbia, pronta a sparire alla prossima onda.

Il ritmo, come da tradizione, è dilatato e meditativo. La scrittura si prende i suoi tempi, costringendoci a osservare, ascoltare, assorbire. Ma non è mai gratuita: ogni scena, ogni dialogo, ogni sogno che emerge dalla spiaggia ha un peso simbolico preciso. Kojima non dà risposte, ma neppure gioca a confondere: chiede al giocatore di esserci, davvero, dentro questo mondo spettrale in cui i confini tra vita e morte, tra passato e presente, diventano liquidi come le lacrime che i personaggi non riescono più a versare.

Il tono generale è più cupo, più disilluso. Se Death Stranding era una fiaba malinconica che credeva ancora nella speranza, On the Beach è una riflessione adulta e struggente sul senso della connessione quando il legame è stato già spezzato. I personaggi – vecchi e nuovi – sono anime rotte in cerca di una forma, e l’umanità che traspare dai loro sguardi, dai loro errori, è forse il tratto più sincero di questo sequel. Una storia che parla di lutto, di rinascita, di seconde possibilità. Ma che, a ogni passo, ci ricorda quanto sia fragile l’equilibrio tra ciò che scegliamo di tenere e ciò che lasciamo andare.

Gameplay: la fatica del viaggio, la forza della connessione

Death Stranding 2 non abbandona la sua identità. La conserva, la difende e la riscrive, come fa chi è consapevole della propria unicità. Il cuore del gioco resta lo stesso: un viaggio a piedi, lento, ostinato, faticoso. Ma questa volta, l’atto del muoversi ha un peso ancora maggiore, perché non si tratta più solo di consegnare, ma di proteggere, costruire, difendere ciò che è rimasto. La struttura da walking simulator estremo evolve in una vera e propria esperienza strategica cooperativa – pur restando rigorosamente single player – in cui ogni scelta topografica ha conseguenze tangibili e ogni percorso va pianificato con attenzione quasi ossessiva.

L’esplorazione è più varia e imprevedibile, con ambientazioni che spaziano dai deserti marziani del Sudamerica alle coste desolate della nuova frontiera oceanica. Le mappe non sono più ampie soltanto in senso orizzontale, ma si sviluppano in verticale, costringendo il giocatore a sfruttare ogni risorsa disponibile: scale estensibili, rampini motorizzati, funivie, piattaforme mobili. Anche le condizioni atmosferiche giocano un ruolo cruciale, con il timefall che ritorna in forma più aggressiva e imprevedibile, ma con nuove varianti ambientali, tra cui tempeste sabbiose e venti magnetici, che costringono a ridefinire in corsa i piani di movimento.

Il gameplay introduce anche una componente più marcatamente action, ma mai invasiva. Le fasi di combattimento sono ancora rare e significative, mai banali o spettacolari nel senso hollywoodiano: si combatte per necessità, non per spettacolo. Le armi – molte delle quali ora sfruttano proprietà “organicizzate” della materia Chirale – si adattano al nuovo contesto narrativo, e la possibilità di combattere insieme ai Companion in tempo reale, con ruoli attivi nella battaglia, rende ogni scontro più dinamico e drammatico. Si può comandare una piccola unità, posizionare coperture mobili, creare diversivi. Ma la vera forza resta nella fuga, nella scelta di non combattere.

Il sistema asincrono di cooperazione online ritorna, più ambizioso che mai. Ogni costruzione lasciata nel mondo può davvero salvare un altro giocatore, ogni ponte, ogni corda, ogni rifugio è un atto di fiducia nel prossimo. Il modo in cui Death Stranding 2 integra le presenze altrui, senza mai renderle visibili, ma sempre percepibili, è ancora una volta commovente. E il senso di comunità che ne deriva è uno degli aspetti più rivoluzionari dell’intero progetto: non si gioca mai davvero da soli, anche se si è da soli sullo schermo.

Ma la vera svolta di On the Beach arriva con l’introduzione del sistema di Echo Route. Una meccanica che permette di rivivere frammenti di viaggio già compiuti – propri o altrui – come guide o premonizioni, capaci di modificare le scelte successive. Si tratta di una forma di “memoria condivisa” che va oltre il concetto di salvataggio o replay: è un modo per imparare dal passato, dal proprio e da quello collettivo. E se si accetta questa filosofia, il gameplay di Death Stranding 2 si trasforma in qualcosa di unico: un continuo dialogo tra chi siamo e chi siamo stati, tra la fatica del passo e il senso del cammino.

I Companion: volti noti, nuove anime e legami più profondi

Nel primo Death Stranding, Sam era un lupo solitario per scelta e necessità. In On the Beach, invece, la solitudine lascia spazio alla coralità, senza mai rinunciare alla dimensione intima del racconto. La vera rivoluzione narrativa sta proprio qui: nel modo in cui i Companion diventano parte integrante – e viva – del viaggio. Non semplici comprimari o personaggi di supporto, ma esseri umani complessi, fragili, sorprendenti, capaci di cambiare il corso dell’intera esperienza.

Ogni Companion ha una sua traiettoria narrativa autonoma, una motivazione che si intreccia con quella di Sam ma che non ne è subordinata. Fragile, ad esempio, è profondamente cambiata: segnata dagli eventi, più risoluta, ma anche più consapevole dei suoi limiti. La sua presenza non è costante, ma ogni volta che torna, il gioco rallenta, si fa più riflessivo. Le conversazioni sono lunghe, sfumate, dense di silenzi che parlano. Il nuovo personaggio di Drawbridge, invece, porta una visione radicale, quasi messianica, della missione, e la tensione ideologica che si crea tra lui e Sam è uno dei motori più forti della storia.

Tecnicamente, i Companion sono controllati dall’IA, ma le loro azioni sono imprevedibili, quasi umane. Non si limitano a seguire o ad aiutare: prendono iniziative, suggeriscono percorsi, reagiscono alle condizioni ambientali e – soprattutto – sbagliano. Possono cadere, farsi male, rallentare il gruppo, costringere a deviare. E in tutto questo, generano un coinvolgimento emotivo raro, autentico. Prendersi cura di loro diventa parte della narrazione. E quando si fermano a parlare attorno a un fuoco, in una pausa rubata al tempo, sembra quasi di sentire il battito di un’umanità perduta.

La novità più potente è però legata al sistema di Empatia Chirale, un’interazione dinamica tra Sam e i Companion basata su connessioni invisibili che si rafforzano – o si deteriorano – a seconda delle scelte compiute. Non ci sono parametri da ottimizzare, ma vibrazioni, sguardi, gesti. La fiducia si costruisce lentamente, e può svanire in un attimo. Alcuni momenti – senza spoiler – riescono a colpire con una delicatezza devastante, e il legame che si crea con determinati personaggi va oltre la logica del videogioco: sembra qualcosa di profondamente umano.

In questo senso, Death Stranding 2 riesce dove molti open world falliscono: non si limita a inserire NPC funzionali, ma li rende centrali, indispensabili. E lo fa senza forzature, senza schemi da RPG classico, ma attraverso l’arte sottile dell’attenzione: una parola al momento giusto, un silenzio pieno di significato, una scelta che cambia tutto. Perché alla fine, come ci aveva già insegnato il primo capitolo, siamo legati gli uni agli altri da fili invisibili. E questa volta, quei fili si sentono tirare davvero.

Una regia autoriale che osa: la visione di Kojima al suo apice

Quando si parla di Death Stranding, il nome di Hideo Kojima non è mai un dettaglio. È il cuore pulsante dell’intera esperienza, l’occhio registico che decide cosa mostrare, quando farlo e, soprattutto, cosa lasciare in sospeso. On the Beachnon fa eccezione. Anzi, rilancia, sperimenta, spinge ancora più in là i confini tra videogioco e cinema. Ma lo fa con maggiore maturità, come se il tempo intercorso dal primo capitolo avesse permesso a Kojima di limare le sue ossessioni e renderle ancora più potenti.

La narrazione si sviluppa su più livelli: quello fisico del viaggio, quello emotivo dei personaggi, e quello concettuale delle idee che attraversano tutto il gioco come correnti sotterranee. Il linguaggio è denso, spesso criptico, ma mai fine a sé stesso. Ogni cutscene – e ce ne sono molte, alcune lunghissime – è girata con una cura maniacale per il dettaglio: inquadrature studiate, movimenti di camera lenti ma espressivi, una fotografia che sembra uscita da un film d’autore scandinavo. Ma il punto non è la bellezza. Il punto è il significato che ogni immagine porta con sé.

La spiaggia – the beach – non è più solo un luogo metafisico di passaggio tra vita e morte. È diventata un simbolo complesso, stratificato, che cambia significato in base a chi la attraversa. E la regia lo riflette, con cambi di ritmo improvvisi, salti temporali destabilizzanti, momenti di pura contemplazione che si alternano a scene di violenza brutale o tenerezza disarmante. È un continuo oscillare tra generi e toni, dove nulla è mai completamente chiaro ma tutto sembra profondamente vero.

Kojima non ha paura di osare, di rischiare. Inserisce lunghi dialoghi filosofici, sequenze oniriche che sfidano la logica, spezzoni musicali che sembrano usciti da un videoclip, e persino momenti in cui il giocatore è chiamato a fare… niente. Solo guardare, ascoltare, riflettere. In altri giochi sarebbe un azzardo. Qui è la regola. E funziona, proprio perché si percepisce che dietro ogni scelta c’è una visione. Una voce.

Eppure, Death Stranding 2 non è un film mascherato da gioco. È, al contrario, un videogioco che sfrutta al massimo il suo mezzo per raccontare qualcosa che altrove non sarebbe possibile. La regia non serve solo a mostrare, ma a far vivere. Le scelte estetiche, le ellissi, i silenzi, sono parte integrante del gameplay emotivo che Kojima ha perfezionato. E quando, dopo ore di cammino, una scena ti esplode davanti come un pugno allo stomaco o una carezza all’anima, capisci che sei dentro qualcosa di unico. Di irripetibile. Di profondamente umano.

Il peso delle immagini: un’opera visiva stratificata, disturbante e magnetica

In Death Stranding 2: On the Beach, ogni fotogramma sembra contenere un significato, una suggestione, un richiamo. Non c’è un singolo elemento del comparto artistico che sembri lasciato al caso. L’estetica del gioco non si limita a colpire per la sua bellezza tecnica – che pure è impressionante – ma costruisce un’identità forte, disturbante e affascinante, che accompagna costantemente il giocatore anche nei momenti più silenziosi e riflessivi.

Il contrasto tra l’ultraterreno e il concreto, tra l’organico e l’artificiale, tra la carne e il metallo, è il filo conduttore di una direzione artistica che si fa dichiaratamente inquieta. Le nuove ambientazioni oceaniche e desertiche, dal Messico devastato alla base mobile galleggiante Drawbridge, amplificano l’immaginario già alieno del primo capitolo e lo spingono verso territori ancor più visionari, dove il simbolismo e la metafora sono ovunque. Kojima non cerca realismo, cerca coerenza interna: ogni oggetto, creatura o paesaggio ha un motivo per esistere, e quel motivo spesso ci parla più del mondo reale che del suo stesso universo narrativo.

L’uso dei colori, in particolare, è chirurgico. Le tinte neutre e fredde dominano gran parte dell’esplorazione, lasciando poi spazio a esplosioni improvvise di rossi, verdi acidi o gialli opprimenti nei momenti di maggiore tensione narrativa. Non si tratta mai di una scelta casuale. Il colore, in On the Beach, è comunicazione emotiva: trasmette disagio, speranza, smarrimento. La spiaggia stessa – che torna a essere il cuore tematico e visivo del gioco – è un non-luogo onirico, perennemente sospeso tra la morte e la rinascita, tra il mito e il dolore. E ancora una volta, anche senza dire nulla, dice tutto.

Ma è il design delle creature e degli oggetti a sancire definitivamente il distacco di Kojima da qualsiasi estetica mainstream. Le BT evolute, le nuove entità ibride, gli strumenti portati da Drawbridge e la chitarra-arma di Higgs sono espressioni di un’estetica postumana, in cui il corpo diventa mezzo, simbolo, o addirittura macchina narrativa. L’orrore in Death Stranding 2 è sempre mediato dallo stupore visivo, e viceversa. Non esiste un mostro che non sia anche un’idea, un messaggio, una riflessione sul nostro rapporto con la tecnologia, con l’ambiente, con la solitudine.

Tecnicamente, il Decima Engine lavora con una fluidità e una ricchezza che fa impressione: la resa della pelle, delle superfici bagnate, dei riflessi e degli effetti particellari raggiunge livelli mai toccati nemmeno da Horizon Forbidden West, dimostrando ancora una volta quanto questa tecnologia sappia evolversi sotto mani esperte. Ma non è la definizione dei pixel a stupire: è la densità di senso racchiusa nelle immagini. On the Beach è uno di quei giochi in cui verrebbe voglia di fermarsi ogni due minuti per fare uno screenshot – non tanto per condividerlo, quanto per contemplarlo.

In un’industria che spesso si rifugia in stilemi visivi già visti, Hideo Kojima ci ricorda che l’estetica, nel videogioco, può e deve essere anche provocazione, inquietudine, vertigine.

Il suono del vuoto, della speranza e dell’ignoto

In un’opera come Death Stranding 2: On the Beach, il sonoro non è un semplice accompagnamento: è linguaggio, è atmosfera, è senso puro. Fin dai primi passi, il giocatore è immerso in un ecosistema uditivo che alterna il silenzio più inquietante a esplosioni emotive cariche di pathos, con un’intelligenza musicale che solo pochissimi autori riescono a concepire con tale coerenza.

A guidare la colonna sonora troviamo ancora una volta il tocco inconfondibile di Ludvig Forssell, affiancato da compositori ospiti e band che tornano a prestare la propria voce al mondo di Kojima. La scelta dei brani, come nel primo capitolo, è calibrata con precisione chirurgica: Low RoarSilent PoetsWoodkid e altri artisti ritornano o debuttano, ma ogni canzone arriva sempre nel momento esatto in cui deve arrivare. Il gioco non usa la musica per decorare: la usa per raccontare, per segnare un passaggio, per incidere un’emozione nella memoria del giocatore. Quando parte un brano vocale, il tempo si ferma. Lo si ascolta, lo si vive, lo si ricorda. E dopo, il gioco non è più lo stesso.

Non è raro trovarsi immersi in chilometri di cammino immersi nel silenzio più assoluto, rotti solo dal suono delle scarpe nella sabbia o dalla pioggia che batte sul parka. È in questi momenti che On the Beach riesce a evocare qualcosa di unico: una solitudine che non è vuoto, ma densità di percezioni. Ogni oggetto posato, ogni veicolo, ogni macchina, ogni entità BT ha un timbro specifico, riconoscibile, costruito con una cura quasi maniacale. Le onde sonore costruiscono paesaggi prima ancora che lo facciano le texture.

Anche il doppiaggio gioca un ruolo fondamentale in questa costruzione acustica. Le performance vocali di Norman Reedus, Léa Seydoux, Troy Baker, Elle Fanning e Shiori Kutsuna – accompagnate da un notevole cast di comprimari – non si limitano alla recitazione, ma diventano parte integrante del soundscape. Le inflessioni, le pause, persino i respiri: tutto è pensato per integrare parola e spazio, voce e vuoto. Il risultato è un impianto sonoro in cui ogni frase pronunciata sembra sospesa nel tempo, come se anche la voce avesse bisogno di attraversare la spiaggia prima di raggiungere l’orecchio del giocatore.

L’integrazione del DualSense su PS5 completa questa sinfonia tattile e auditiva con vibrazioni minuziosamente progettate, feedback adattivi sui grilletti e persino l’uso dinamico dell’altoparlante del controller per restituire comunicazioni radio, suoni di BB, rumori ambientali. È un’immersione sensoriale completa, mai invasiva, sempre espressiva.

In un panorama ludico dove la musica spesso si limita a seguire l’azione, Death Stranding 2 alza l’asticella: qui il suono non segue, ma guida. È il suono a portare avanti la narrazione, a suggerire lo stato d’animo del protagonista, a trasformare ogni singolo passo in qualcosa che ha un peso. E in un gioco dove tutto parla di connessioni, è giusto che sia proprio il suono il primo ponte che si costruisce tra noi e questo mondo tanto rotto quanto indimenticabile.

Comparto tecnico e prestazioni su PS5

Se Death Stranding era già un gioiello tecnico su PlayStation 4, Death Stranding 2: On the Beach rappresenta il pieno compimento della visione di Hideo Kojima, resa possibile solo grazie alla potenza della nuova generazione. Il Decima Engine, motore sviluppato da Guerrilla Games, viene qui portato a un livello mai visto prima, spingendosi ben oltre quanto fatto in Horizon Forbidden West o nel Director’s Cut del primo capitolo. A colpire non è solo la qualità delle texture o la modellazione dei personaggi, quanto la naturalezza con cui ogni elemento si fonde in un mondo vivo, dinamico e a tratti quasi iperrealistico.

Ogni superficie bagnata dalla pioggia temporale riflette il mondo circostante con un realismo che ha dell’incredibile, le variazioni climatiche influenzano fisicamente la resa ambientale e la direzione della luce naturale evolve in tempo reale, generando tramonti mozzafiato e nebbie mattutine che sembrano dipinte a mano. Su PS5, il titolo gira stabilmente a 60 fps nella modalità performance, offrendo un’esperienza fluida anche nelle situazioni più concitate, come le sequenze d’azione con Drawbridge o le nuove boss fight. La modalità grafica, invece, punta ai 4K nativi con ray tracing attivo: i riflessi sulle superfici metalliche e la profondità dell’illuminazione globale sono un vero spettacolo, anche se a scapito della fluidità (limitata a 30 fps stabili).

Non va sottovalutato nemmeno il lavoro sul fronte audio 3D, perfettamente sfruttato dal sistema Tempest Engine della console Sony. Sentire il fruscio della pioggia che ti circonda, il rumore dei BB in lontananza o il respiro del tuo personaggio affaticato mentre arrampica un versante scosceso, crea un senso di immersione che pochi altri titoli sono riusciti a trasmettere con questa intensità. Anche il DualSense fa la sua parte: i grilletti adattivi restituiscono la fatica delle salite o la resistenza di una corda tesa, mentre il feedback aptico distingue con precisione il contatto con superfici diverse, dalla sabbia alla roccia, fino alla sensazione viscerale dell’acqua sulla pelle sintetica delle tute.

Nel complesso, Death Stranding 2 su PS5 è un’esperienza visivamente e sensorialmente superiore, in cui la tecnologia non è solo uno sfoggio estetico ma un’estensione perfetta del gameplay e della narrazione. Una dimostrazione di forza elegante, mai gratuita, che conferma quanto il team di Kojima Productions abbia ormai raggiunto un controllo quasi assoluto sul proprio motore creativo.

Differenze con il primo capitolo e novità principali

Chi si aspettava una semplice espansione o una replica raffinata del primo Death Stranding si troverà di fronte a qualcosa di molto diverso. On the Beach non è solo un sequel, ma una vera e propria reinvenzione del viaggio di Sam Porter Bridges. È un titolo che si riallaccia agli eventi del predecessore con coerenza e rispetto, ma che al tempo stesso ne scardina le fondamenta per raccontare qualcosa di nuovo, più maturo, più rischioso. Dove il primo gioco celebrava la solitudine e la ricostruzione, il secondo riflette su appartenenza, responsabilità e sacrificio collettivo. La narrativa è più sfaccettata, i dialoghi meno criptici e più umani, e il mondo di gioco, pur rimanendo frastagliato e alienante, è ora più ricco di incontri e di possibilità.

La più grande rivoluzione arriva però sul piano strutturale e ludico. Se il primo capitolo si reggeva quasi interamente sul concetto di consegna e connessione, Death Stranding 2 introduce una dimensione più varia e corale. Le missioni di trasporto non spariscono, ma vengono ridimensionate e integrate in una rete di attività molto più ampia, tra cui spiccano le azioni di squadra con Drawbridge, la possibilità di svolgere operazioni sincronizzate con altri corrieri, e le fasi più apertamente stealth e action che arricchiscono il ritmo. A ciò si aggiunge la gestione del Quartier Generale, la costruzione di strutture mobili e un sistema di potenziamento dei veicoli e dell’equipaggiamento che strizza l’occhio ai giochi di ruolo.

Tra le novità più sorprendenti troviamo anche la nave-città, una base mobile su cui si sviluppano sequenze narrative, attività collaterali e missioni da coordinare. In essa convivono NPC con routine dinamiche, spazi da esplorare e terminali da cui è possibile osservare l’evoluzione della rete di Drawbridge. Non mancano poi i momenti più contemplativi, in cui Kojima invita ancora una volta a rallentare: come i nuovi strumenti musicali per comporre melodie durante le pause, o la possibilità di prendersi cura del proprio BB in modo più profondo e interattivo.

Infine, Death Stranding 2 rivede completamente anche il sistema di combattimento, rendendolo più responsivo, modulare e creativo. Le armi ora possono essere personalizzate e modificate sul campo, i nemici presentano pattern più aggressivi e intelligenti, e le boss fight si spingono verso scenari surreali e memorabili, ereditando molto del linguaggio visivo che Kojima ha sperimentato nei suoi corti cinematografici più recenti. Tutto, insomma, converge verso un’esperienza che resta inconfondibile ma che non ha paura di evolversi, spiazzare, persino sbagliare in certi frangenti. Ed è proprio questa ambizione a renderla unica.

Commento finale

Death Stranding 2: On the Beach è un’opera che divide, che sfida, che non cerca mai di piacere a tutti. E proprio per questo riesce a lasciare un segno più profondo. Hideo Kojima torna a parlare di connessioni, ma questa volta lo fa in un mondo che non ha più bisogno di essere unito: lo fa in un mondo che deve imparare a convivere con le proprie fratture, con le sue ombre, con le sue memorie spezzate. È un videogioco che parla di lutto e di speranza, di scelte collettive e sacrifici personali, ma che riesce a restare un gioco nel senso più puro e profondo del termine. Dal punto di vista ludico, il titolo evolve con coerenza la formula originale, integrando nuove meccaniche, ritmi più dinamici e una struttura più stratificata, dove la componente narrativa e quella gestionale si incontrano senza mai scontrarsi. Non tutto è perfetto: alcune sezioni risultano ancora troppo lente, certe scelte di gameplay potrebbero disorientare chi si aspetta un’azione più continua, e qualche passaggio narrativo rischia di risultare eccessivamente criptico. Ma sono piccole crepe in un’opera che riesce, ancora una volta, a essere visionaria, fragile e potentemente umana. Il comparto tecnico su PS5 rasenta l’eccellenza: caricamenti fulminei, pulizia visiva, stabilità granitica, senza rinunciare al dettaglio artistico che rende ogni inquadratura degna di uno scatto fotografico. Il DualSense viene sfruttato in modo eccellente, così come l’audio 3D e il feedback aptico, rendendo ogni passo, ogni goccia di pioggia e ogni battito del cuore del BB parte viva dell’esperienza. In definitiva, Death Stranding 2 è molto più di un sequel. È un’opera seconda che riscrive il senso della prima, un nuovo viaggio che non cancella il precedente ma lo trasforma, lo rielabora, lo sublima. È uno di quei giochi che chiedono fiducia, tempo, e un pizzico di abbandono. Ma se ci si lascia andare, On the Beach riesce a toccare corde che raramente il videogioco moderno osa sfiorare.

9.5

Recensione Death Stranding 2: On the Beach: Il capolavoro finale di Hideo Kojima


Death Stranding 2: On the Beach è un’opera che divide, che sfida, che non cerca mai di piacere a tutti. E proprio per questo riesce a lasciare un segno più profondo. Hideo Kojima torna a parlare di connessioni, ma questa volta lo fa in un mondo che non ha più bisogno di essere unito: lo fa in un mondo che deve imparare a convivere con le proprie fratture, con le sue ombre, con le sue memorie spezzate. È un videogioco che parla di lutto e di speranza, di scelte collettive e sacrifici personali, ma che riesce a restare un gioco nel senso più puro e profondo del termine. Dal punto di vista ludico, il titolo evolve con coerenza la formula originale, integrando nuove meccaniche, ritmi più dinamici e una struttura più stratificata, dove la componente narrativa e quella gestionale si incontrano senza mai scontrarsi. Non tutto è perfetto: alcune sezioni risultano ancora troppo lente, certe scelte di gameplay potrebbero disorientare chi si aspetta un’azione più continua, e qualche passaggio narrativo rischia di risultare eccessivamente criptico. Ma sono piccole crepe in un’opera che riesce, ancora una volta, a essere visionaria, fragile e potentemente umana. Il comparto tecnico su PS5 rasenta l’eccellenza: caricamenti fulminei, pulizia visiva, stabilità granitica, senza rinunciare al dettaglio artistico che rende ogni inquadratura degna di uno scatto fotografico. Il DualSense viene sfruttato in modo eccellente, così come l’audio 3D e il feedback aptico, rendendo ogni passo, ogni goccia di pioggia e ogni battito del cuore del BB parte viva dell’esperienza. In definitiva, Death Stranding 2 è molto più di un sequel. È un’opera seconda che riscrive il senso della prima, un nuovo viaggio che non cancella il precedente ma lo trasforma, lo rielabora, lo sublima. È uno di quei giochi che chiedono fiducia, tempo, e un pizzico di abbandono. Ma se ci si lascia andare, On the Beach riesce a toccare corde che raramente il videogioco moderno osa sfiorare.

PRO

Narrazione matura, emozionante, ricca di sfumature | Gameplay evoluto, vario e sorprendente | Comparto tecnico eccellente su PS5 | Colonna sonora e sound design memorabili Ambizione e coerenza autoriale fuori dal comune

CONTRO

Alcune sezioni ancora troppo lente o criptiche | La struttura ibrida potrebbe disorientare i neofiti | Non sempre bilanciate le nuove meccaniche action

4News.it è una fonte di OpenCritic.com, il più grande aggregatore internazionale di review dedicato al mondo dei videogames.

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