Recensione Il Cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans

cattivotenente_pic001Un remake covato internamente

In piena foresta amazzonica, durante una pausa di lavorazione di Fitzcarraldo, il regista Werner Herzog afferma: “Non dovrei più fare film…dovrei andare a rinchiudermi in manicomio”. Questa scena, che appartiene a un documentario dal titolo Burden of Dreams (fatto sulla realizzazione del film con Klaus Kinski), è ripresa da Abel Ferrara in Occhi di serpente, pellicola realizzata nel 1993, dove il suo protagonista, il regista Eddie Israel (non a caso interpretato da Harvey Keitel), in trance davanti al filmato, cerca nelle parole del fratello tedesco un argine al disfacimento che lo divora. Riflettendosi in Herzog attraverso Keitel, Ferrara rende senza dubbio un omaggio tra i più viscerali al cineasta tedesco. Adesso è forse il caso di restituire il favore, ha pensato il buon Werner dopo oltre quindici anni, a dispetto dei proclami della critica che l’hanno tenuto a tutti i costi lontano dal Bad Lieutenant diretto dal regista newyorkese nel 1992. Non è credibile, in tutta onestà, che Herzog non conosca o non abbia mai visto il film di Ferrara come è altrettanto poco veritiero che Ferrara non sia stato interpellato dalla produzione prima che il progetto di questo remake vedesse la luce.

Il Cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans conserva a conti fatti molto del precedente lungometraggio di Ferrara: a cominciare dalla storia che vede come protagonista un detective di polizia corrotto, interpretato qui da Nicolas Cage (non più Harvey Keitel), che affonda nelle droghe e nell’alcool la sua smania crescente di voler essere un poliziotto migliore di quello che è; per proseguire negli intenti estetici dei due autori, che pongono al centro la questione del senso di colpa capace di segnare inesorabilmente i destini dei personaggi, e nella fattispecie di attanagliare sin dalla sequenza iniziale il destino di Cage, il quale decidendo di salvare un prigioniero rovina paradossalmente la sua esistenza.

È chiaro che la messa in scena adottata da Herzog segue percorsi diversi dai sentieri mistici frequentati da Ferrara e ci catapulta in una New Orleans distrutta dalla catastrofe dell’uragano Katrina, dove il confine tra il bene e il male è diventato sempre più labile e dove quindi può annidarsi lo spazio per l’utilizzo di un registro grottesco anziché drammatico, con iguane e coccodrilli che sondano un reale tendente a scomparire sotto lo sguardo allucinato ed esaltato del tenente Terence McDonagh.

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Nicolas Cage si dimostra efficace (e all’altezza del suo predecessore) nel palesare lo stato di annichilimento fisico oltre che mentale in cui il suo personaggio è sprofondato: del resto Cage è un attore capace di adattarsi sia ai ruoli tradizionali che a quelli più intimi ed estremi (basta vederlo in Cuore Selvaggio di David Lynch o in Via da Las Vegas di Mike Figgis per rendersene conto). In più Herzog decide di seguirlo a distanza, puntando su di lui un occhio discreto che non partecipa direttamente agli eventi proposti sullo schermo: quello del regista tedesco è un taglio quasi documentaristico, in cui la natura selvaggia e ostile opprime dei personaggi che sono certamente fuori dagli schemi, come la bella prostituta Frankie (Eva Mendes), la fidanzata di Cage, forse la sola in grado con il suo carattere fragile e il suo sguardo sensuale ma smarrito di restituire un tocco di umanità alla vicenda.

Il risultato finale appare dunque positivo e nel contorto universo morale creato dalla pellicola, non accostabile ai modi e ai tempi di rappresentazione del cinema tipicamente hollywoodiano, la narrazione può anche lasciarsi andare verso l’imprevedibile e l’inaspettato, dimostrandosi coraggiosa seppur non del tutto originale.

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